Le immagini di clandestini che approdano sulle nostre coste e che affollano i centri d’accoglienza sempre più insufficienti sembrano essere divenuti parte integrante della quotidianità, abitudine visiva che, oramai, non scuote più alcun sentimento di umana pietà o di sdegno sociale. Eppure, nonostante questo, le invisibili e ignote esistenze di questi uomini hanno saputo attrarre l’attenzione di uno sguardo limpido e penetrante. Marco Tullio Giordana, con la lucidità e la sintetica schiettezza che da sempre contraddistingue la sua narrazione asciutta e priva di facili e pericolosi orpelli narrativi, riesce, ancora un volta, a regalarci efficaci e coinvolgenti ritratti di umana quotidianità. Al di sopra di qualsiasi polemica politica o giudizio sociologico, Giordana insegue con ossessiva attenzione i mutamenti emotivi riflessi negli occhi dei suoi protagonisti e prende in prestito l’innocenza e la concretezza di uno sguardo adolescenziale, attraverso il quale dà vita ad un pathos genuino, lontano da formule e schemi fin troppo proposti. Il risultato è un cinema fatto d’istinti e trasporto, curato ma mai costruito, una vicenda così spontanea e naturale da colpire nel profondo proprio per la sua possibilità. Grazie alla sensibilità senza timore sviluppata da Sandro (Matteo Gadola) nei confronti del mondo e dell’altro, si delinea un cammino di vita all’interno del quale si intrecciano e sovrappongono la discriminazione razziale, l’aggregazione, la prostituzione e l’amore incondizionato di una famiglia.
Un cocktail capace di mettere in luce le umane miserie ma, soprattutto, il desiderio e l’impulso di andare oltre per ribellarsi all’inevitabile. Certo molto si deve al reportage realizzato dalla scrittrice Maria Pace Ottieri che ha attratto e acceso l’interesse di Giordana, all’interesse curioso ma mai invasivo del giovane Matteo Gadola alla sua prima esperienza cinematografica e ad un Alessio Boni credibilmente paterno, ma il cuore, l’essenza e la vitalità stessa di questo film è da attribuire soprattutto all’efficace visione di un regista coadiuvato e sostenuto da una sceneggiatura capace di essere vero pilastro narrativo. Sandro Petraglia e Stefano Rulli hanno costruito ancora un volta, dopo l’esperienza di Le chiavi di casa, una nuova coppia padre/figlio le cui azioni, parole e sentimenti sono cariche d’amore e di aspettative senza cadere mai nell’enfasi scontata. Ogni frase, ogni singolo sguardo ed abbraccio porta con sé il grande pregio della spontaneità e della quotidianità, caratteristiche che non hanno certo il compito di stimolare commozione a tutti i costi, ma che conducono lentamente e gradualmente a una compartecipazione all’interno della quale si nasconde la più genuina delle emozioni.
di Tiziana Morganti