Per il suo primo noir, Gabriele Salvatores prende spunto dal primo romanzo edito dalla Colorado Libri, azienda da lui stesso promossa, e scritto da Grazia Verasani che sentitamente ringrazia. Il regista di Mediterraneo e Nirvana usa tutti i mezzi espressivi e tecnici a sua disposizione per sviscerare i segreti di una famiglia distrutta da ripetuti suicidi, in una Bologna uggiosa e dark come una Chicago anni ’30. Una giovane aspirante attrice consegna i suoi segreti a ventisei Vhs prima di appendersi al soffitto per il collo. Le stesse, sedici anni dopo, arrivano nelle mani della sorella Giorgia, interpretata dalla ex-cantante di Dalla e De Gregori Angela Baraldi, bravissima nel dare il suo volto alla protagonista femminile del racconto e il suo corpo alla prima scena di sesso del cinema di Salvatores, girata – per sua stessa definizione – con il rispetto di una macchina da presa che non interviene, ma osserva. E di qui in poi una serie di misteri svelabili solo in parte ma che coinvolgono tutti gli elementi rotanti intorno al piccolo ma affascinante universo creato dalla Verasani. Giorgia, investigatrice privata con immancabile sigaretta alla mano e bottiglia al fianco, sembra un femmineo Humphrey Bogart dei tempi nostri ma così caratterizzato che potrebbe facilmente essere spostato indietro o avanti nel tempo senza perdere nulla, una novella Nathan Never con tanti scheletri nell’armadio da scoprire lentamente, con una macchina fotografica al posto del fucile laser.
Così è da considerare anche la sorella Ada, interpretata dall’esordiente Claudia Zanella, un po’ vittima e un po’ carnefice, erede illegittima della Laura Palmer di Twin Peaks. Stessi capelli biondi e occhi verdi e stessa presunta innocenza violata da un morte ingiustificabile prima, giustificata poi dalla sua imprevedibile doppiezza. Manca David Linch diremmo noi, e un bravo Salvatores con tutti i mezzi tecnici del digitale e scenografie volutamente tra il surreale e l’anacronistico non bastano a creare una nebbia abbastanza fitta attorno al mistero di Ada Contini. Né le tante citazioni cinefile – il titolo stesso viene da Ultimo tango a Parigi – sono sufficienti a sviluppare l’interesse del cultore più accanito. Fa tuttavia riflettere che, negli ultimi due film Salvatores si sia tanto dato da fare a scrutare il rapporto padre-figlio nella contemporaneità, se poi aggiungiamo una locandina de I pugni in tasca e una frase da lui detta all’inizio dell’incontro con la stampa – «Il cinema è un’arte collettiva», la pulce all’orecchio ci salta inevitabilmente. Quella stessa frase era stata usata proprio da Marco Bellocchio durante una nostra intervista per giustificare il suo passaggio dall’arte pittorica a quella cinematografica. Proviamo dunque a ipotizzare un certo avvicinamento (da estimatore?) e che il Salvatores di oggi non sia più il regista della fuga, ma uno che, in modo molto bellocchiano, sceglie di restare per “fare a pugni” con il proprio contesto sociale, familiare, personale? Speriamo di sì, intanto Quo vadis, baby? è un’interessante premessa.
di Alessio Sperati