Capita a volte che l’anteprima stampa ancora non sia finita e già al medio recensore, pur cristallizzato e riconfermato ‘ad libitum’ nella sua attitudine spettatoriale si insinui nella sua infinità vanità la grande domanda (per usare la terminologia tecno-teosofica di Matrix): recensire come, recensire cosa? Ah! Se fossi ricco è una di quelle pellicole di cui balza all’ occhio con evidenza neanche la bruttezza quanto la media inutilità, la capacità di evaporare nella percezione dello spettatore già nell’atto di imprimersi nell’occhio. Insomma medio prodotto e tele-visione, pure dignitoso nella sua intenzione di non lasciare traccia di sé ma che dà il problema insolubile di cosa scriverne mai. Meglio parlare del film, oppure sprofondare nell’autocoscienza distratta di infinite visioni ministeriali, tra momenti di fiacca burocrazia oculare ed ordinario addestramento visivo delle anteprime stampa (media filmografia=fitness per la retina) e recensire sé stessi mentre si è al cinema? Fortunatamente poi viene in aiuto una sorta di diaristica del subcosciente, ovvero il film lo si vede distrattamente e la mente sfarfalla per suo conto tra ricordi, libere associazioni, evocazioni. La sala e lo schermo sviluppano le loro vicende perfettamente in parallelo senza incontrarsi mai e dal loro ‘ping pong’ dialettico si può anche mettere assieme qualcosa che somigli ad un giudizio critico.
Il fraintendimento autoreferenziale come cardine interpretativo dello spettatore assente. Per farla breve la recensione nasce più dall’interazione (mancata) tra il film e i casi personali di chi scrive, che dal film in sé, che d’altronde tenta di farsi rimuovere da solo. Per comodità la durata della pellicola (che dovrebbe essere una commedia tutta brio) nella testa dello spettatore passa da un’ ora e quaranta a sette ore (percezione soggettiva del tempo o ritmo un pochino latitante?) e, visto che si parla di rappresentanti di prodotti cosmetici e per parruccheria, l’ attenzione viene ottusa e stordita dall’ aroma di antiforfora al tiglio che emana la messa in scena di Michel Munz e Gerard Bitton (l’ esegesi stornata dalla cosmesi) corretta, per carità, leccata, per carità e pure un po’ francese, per carità, mica l’esibizionismo edonistico statunitense, tanto per dimostrare che la ‘sophisticated comedy’, oltre agli americani, non la sanno fare più manco i francesi. Lo spunto è retorico-globalizzato-recessivo.
Lui (Jean Pierre Darroussin, curiosa faccia da everyman assonnato, prestazione attoriale pure, purtroppo, ma non biasimiamolo, il materiale era quello che era) è un piazzista povero in canna, immerso nel precariato sempiterno di infiacchita classe media contemporanea (c’è aria di crisi e di tagli al personale) e per tutto il film tenta di trovare il portamento giusto per indossare i capi griffati che la sceneggiatura gli impone. Lei (Valeria Bruni Tedeschi), dopo essere sfuggita a stento agli psicodrammi arty all’europea di Calopresti (discreti) e della Di Maio (artefatti), annega il frustrante “vorrei ma non posso” essere Monica Vitti, Bibi Anderson o Liv Ulmmann (e le doti le avrebbe pure poveraccia, purtroppo pigmalioni come Antonioni o Bergman non si trovano al discount sotto casa) nel tentativo di far ridere nel ruolo di una moglie nevrotica che tradisce il marito col capoufficio, ma evidentemente le precedenti esplorazioni del profondo l’ hanno suggestionata, quindi somatizza e annega il personaggio in un tripudio di tic, mossette, vocine, sussurri e cachinni.
Lui, che confonde la speranza con la coazione a ripetere, investe oculatamente i suoi risparmi nel Lotto (titolo per bigino neogramsciano del terzo millennio: “dall’ ottimismo al cottimismo della volontà”), il plot gli dà ragione e diventa ricchissimo nonché magnate nel settore shampistico, senza dire nulla ad amici e familiari. Il tutto in un profluvio di gag alla Nando Cicero, però ben educate alla scuola del neutro televisivo (si rutti pure a tavola, ma stando composti e usando le posate, mi raccomando). Nella sua compiaciuta passeggiatina nei territori del già visto e dell’ immaginario precotto, ogni tanto il preconscio (spettatore ora sarebbe dir troppo) ha la sensazione di trovarsi di fronte a una moralina un pochino ambigua (lotta di classe o apologo ammiccante al neo ricco frustrato, che diventa più elegante, chicchettoso e telegenico), ma forse qui di morali, moralismi o moraline non c’è traccia. Certo poi ognuno può trarre indicazioni per il suo privato dal film. Che dire infatti del finale horror, con la bellezza sofisticata della Bruni Tedeschi, inguainata in un asciugamano dopodoccia (erotismo patinato-sgocciolante) devastata da phonature improvvide e dall’ abuso di spray fissante e crema idratante? Meditate gente, quando vi fate la doccia.
di Francesco Rosetti