Il concetto di indipendenza nel popolo americano è profondamente radicato, ma spesso e volentieri sorge il dubbio che sia anche alquanto distorto. Lo dimostra il fatto che questo sacro fuoco li porta ad andare in terre lontane a regalar loro la libertà senza che nessuno glielo abbia mai chiesto, scoprendosi una mattina invasori piuttosto che paladini. Tutto questo soprattutto considerando il fatto che ci sono tanti americani che in patria vivono in cattività, a causa della discutibile struttura sociale, della mancanza di welfare e dello stato di alienazione in cui sono ridotte le classi meno abbienti. Harvey Pekar era uno di questi sfortunati derelitti, capace però di raccontare attraverso le sue umane miserie l’America sotto un altro punto di vista, quello dei paria che per arrivare a fine mese sono costretti a mille rinunce, facendo avvizzire la loro parte più umana, dimenticando cosa vogliano dire generosità, altruismo, bontà, amore. American Splendor è la cronaca di un piccolo grande sogno americano, raccontato con grande intelligenza cinematografica da Robert Pulcini e Shari Sprinter Barman, attraverso le parole dello stesso Pekar e grazie a un’interpretazione straordinaria di Paul Giamatti, caratterista a cui viene finalmente data la possibilità di dimostrare tutta la sua classe di attore. Una storia tanto incredibile da non sembrare neanche possibile, eppure terribilmente reale, uno spaccato crudele della società americana e del desiderio di sovversione di una nazione che vive profonde contraddizioni. Un’opera, American Splendor, che si può affiancare per importanza a Bowling a Columbine di Michael Moore. Entrambi questi film, infatti, sono i migliori esempi della controcultura a stelle e strisce, manifesti del dissenso di una parte, speriamo sostanziosa, di un popolo ancora troppo giovane per capire cosa voglia fare da grande.
di Alessandro De Simone