Quando nel turbolento 1968 Paolo Conte decise di scrivere Insieme a te non ci sto più certo non immaginava che, dopo ben trentasette anni, il suo successo sarebbe diventato la colonna sonora più adatta per compiere efferati delitti. Causa di tale trasformazione il romanzo di Carlotto, intitolato appunto Arrivederci amore, ciao, e di Michele Soavi, sedotto dalle vicende criminali di un ex attivista in preda a frenesie omicide durante l’ascolto del famoso refrain. In realtà, colonna sonora a parte, la vicenda è una esaltazione della violenza utilizzata come arma per riappropriarsi di una rispettabilità persa a causa di una scelta giovanile sconsiderata. Il panorama è quello ben conosciuto della realtà italiana, percorsa prima dal terrore degli anni di piombo e poi dalla vitalità della corruzione politica che tutto può comprare, perfino una fedina penale linda ed immacolata. Considerando anche le caratteristiche “oscure” della letteratura di Carlotto, il background di Soavi nel cinema impegnato e di genere, nonchè le iniziali tematiche rivoluzionarie verrebbe spontaneo collocare il film tra i due maggiori ritratti generazionali prodotti fino ad ora: La meglio gioventù e Romanzo Criminale. Un accostamento spontaneo appunto, ma sostanzialmente improprio. Nonostante la sua esperienza nel trattare determinate tematiche, Michele Soavi (Ultimo 2 – La sfida, Uno bianca) in questo caso percorre i momenti personali di un individuo che, per puro caso è un ex BR ed un disilluso, sfiora solamente il panorama storico generale, dandone dei brevi e frammentari accenni.
Lontano dal respiro più profondo e dalla visuale più ampia impressa nelle loro opere da Marco Tullio Giordana e da Michele Placido, Soavi sembra essersi divertito nel realizzare prettamente un noir di genere che, con un senso di profondo piacere, sembra cedere alla seduzione di alcune esagerazioni stilistiche e narrative. Non dimenticando il suo passato horror (i suoi primi passi nel mondo del cinema sono stati acaanto a Joe Damato, Lamberto Bava e Dario Argento) indugia nella rappresentazione della violenza e dei suoi effetti, abbondando in sparatorie e spargimenti di sangue. Andando oltre a particolari puramente visivi il film si arricchisce di una particolare ed efficace rappresentazione del potere promiscuo attraverso il personaggio di Anedda (Michele Placido), senza la cui subdola e perversa ambiguità le esplosioni criminali di Giorgio (Alessio Boni) non avrebbero motivo di esistere. Eppure al di là di questi elementi positivi, saltano agli occhi alcune esagerazioni narrative che, probabilmente, sono profondamente legate alle scelte letterarie di Carlotto. Improbabile è riuscire ad ascoltare una canzone italiana in un avamposto guerrigliero sprofondato in una giungla del centroamerica, anacronistico e vagamente retorico mostrare l’ennesima ritratto del Che, per finire con un confronto tra il demonio e la santità fatta donna che acquista, quasi inaspettatamente, un risvolto ironico. E per finire la frase più significativa di tutta una sceneggiatura, «Promettimi che non sei più comunista», è veramente troppo.
di Tiziana Morganti