Aurora di Murnau ovvero della infinita rifrazione-riformulazione del discorso autoriale oltre qualsiasi possibile cristallizzazione di senso. L’occasione comunque ghiotta di una proiezione della pellicola restaurata e redisitribuita offre il destro per una serie di considerazioni su un regista che, al suo terzultimo film, riconfigurava con molta decisione il suo cinema portandolo ad una densità estetica tale che il suo rovello formale si trasmette in sala con assoluta e sublime naturalezza. Chi scrive, non me ne vogliate, non ama molto le occasioni di omaggio, restauro, rassegna omaggio ad un grande film, ad un grande regista o a un movimento di autori e critici. Niente da eccepire sulla bontà delle intenzioni, o sulla qualità del risultato (in questo caso buonissima) ma di solito in queste occasioni il capolavoro, di cui non si finisce di esaltare la forza poetica senza tempo, l’immortalità finisce per rimanere distante, chiuso in una sua dimensione non penetrabile dall’interpretazione esaltato, storicizzato, contestualizzato, mummificato nella vulgata critica. Si ha un bel dire che in questo modo un film del genere possa finalmente essere apprezzato nel formato in cui era stato pensato e nel dispositivo della sala cinematografica cui era in origine destinato. Il tempo è comunque passato e la visibilità (o leggibilità) di un’opera slegata dalle categorie estetiche e dalle conoscenze tecnologiche (quanto il cinema deve la sua vedibilità al progresso tecnologico e quanto anche un film innovativo ai suoi dì possa perdere quella parte di fascino data dalla continua evoluzione tecnica del mezzo) può perdersi.
Non è un modo di ridimensionare l’evento del capolavoro riproposto al pubblico, ma solo la constatazione che, se l’occhio dello spettatore non si rende pronto ad abbracciare l’alterità di ciò che gli viene proposto, il film rimarrà muto e lontano (ma d’altronde non è facile neanche leggere la Divina Commedia, senza reimmergersi nella lingua di Dante, che non è la nostra). D’altronde anche un eccesso di scrupolo filologico o filo autoriale può imprigionare un’opera nell’ufficialità di una vulgata, come già detto, o nell’impossibilità di dire al di fuori di coordinate autoriali (la poetica di Murnau in questo caso), ricostruite in maniera rigida e definitiva. Insomma celebrare di solito è rischioso anche se giusto e inevitabile, e questi rischi bisogna conoscerli per potersi aprire alla comprensione di qualcosa che è diverso da noi (non può emozionare con immediatezza), ma suo modo ci parla, non è alieno, completamente altro rispetto a noi. Eppure Aurora riesce ad insinuarsi nell’occhio di chi scrive automaticamente e con immediatezza viene riconosciuto e accettato, l’immersione nel film avviene senza passaggi interlocutorii, la qualità significante di ciò che chiamiamo capolavoro per una volta si impone da sé. Mai, durante la proiezione, la pellicola prende quel fascino feticistico museale da sesterzio romano o da femore di tirannosauro, come fosse niente altro che un oggetto di un’epoca passata e come tale estranea. Insomma da subito si riconosce Murnau nostro contemporaneo.
E viene da chiedersi da dove arrivi un’adesione primaria così esplicita a un film muto del 1928 (evitata la retorica del capolavoro assoluto, fascinosa ma che non spiega). Si può pensare che Aurora, oltre ai suoi specifici pregi formali, abbia anche la fortuna di essere un capolavoro nato in uno snodo fondamentale per l’ evoluzione del cinema, a solo un anno di distanza dall’introduzione del sonoro e nel pieno della speculazione teorica sullo statuto ontologico della nuova arte, teoresi gestita dagli stessi registi più che dagli accademici. Dunque ci troveremmo di fronte ad un vero film crocevia, nutrito di un tale numero di umori teorici, filosofici, tecnologici, da diventare una sorta di manifesto (involontario e forse il termine è improprio) non solo di un momento storico della settima arte, ma anche in nuce di tutto il dibattito sullo statuto del cinema, sulla trasmutabilità infinita e caotica delle sue forme, sulla necessaria apertura dell’inquadratura alla varietà del reale. Proprio l’occhio pittoricistico di Murnau arriva a sublimare l’ eredità dell’espressionismo in un film che apre invece a suggestioni che arriveranno in territori apparentemente lontanissimi da quelli del regista tedesco, fino all’uso della m.d.p. in Rossellini e alla speculazione sul fuoricampo di alcuni teorici della Nouvelle Vague. Il fenomeno (più che vero e proprio movimento) avanguardistico espressionista, di cui Murnau è stato rappresentante di punta in campo cinematografico, ha avuto sempre un rapporto complesso con l’immagine, oscillando tra il rifiuto della razionalità della forma e della rappresentazione a favore dell’ evocazione di un inconscio invisibile, impossibile da mettere in immagini e la volontà contrapposta di visualizzarlo, mapparlo, rinchiuderlo dentro i bordi di un’inquadratura perfettamente composta, anche rinunciando alle regole prospettiche a favore delle asimmetrie e dei giochi di luce e ombra (le scenografie di Caligari).
Il dinamismo, il moto dell’immagine cinematografica si rivelava più nel grafismo esasperato del quadro che nell’ attività della camera (e proprio questo tormento individualizzato della forma, visibilissimo ad esempio in Fritz Lang, irritò teorici come Bazin). Ebbene con Aurora, Murnau trasferisce l’ inconscio, l’indicibile dal quadro al fuori campo. L’ occhio individualizzato della m.d.p. non contempla più qualcosa di deformato, ma comunque dentro i bordi dell’ immagine, bensì si muove, ricerca i personaggi, si apre a masse di persone, automezzi, tram, barche che bucano di continuo la cornice entrando nel quadro o fuoriuscendovi. In Murnau non è più possibile una compiutezza formale, magari sotto il segno della difformità o dell’asimmetria, l’immagine e la sua rappresentazione cinematografica si compiono all’ infinito in una realtà in continua trasformazione. Non è più possibile un’ oggettivazione né della realtà fenomenica né dell’inconscio che la trasforma in paesaggio interiore. Si è detto che in questo film la camera diventi lo sguardo dei personaggi (una coppia contadina che deve prendere atto dell’esistenza di una realtà completamente nuova, la città, appunto il loro fuoricampo), fu lo stesso Murnau ad accogliere questa interpretazione. In realtà sarebbe più appropriato dire che la m.d.p. da occhio si trasforma compiutamente in soggettiva non solo del regista (e dello spettatore), che si immerge nello stesso spazio filmico lo indaga, trova sempre nuovi dettagli cognitivi. Non un narratore onnisciente, come a breve avverrà ad Hollywood ma piuttosto un cronista cosciente di non essere colui che registra la vera realtà che, allo stesso modo della rappresentazione è in perenne ridefinizione. Ecco, in questa continua mobilità dell’occhio cinematografico, che riconfigura continuamente le sue stesse categorie teoriche, Murnau si integra agevolmente con i più avanzati sperimentalismi contemporanei e ci fa comprendere perché lo amassero tanto i cineasti della Nouvelle Vague, che ne compresero meglio di chiunque la natura grande regista di inquadrature (dell’insufficienza dell’inquadratura) più che grande regista di scene.
di Francesco Rosetti