“Non ti serve di capirlo, devi solo immaginarlo” cantava così Jack Skellington il Re delle Zucche nel lungometraggio d’animazione in ‘stop motion’ Nightmare Before Christmasfirmato Henry Sellick, ma partorito dalla fervida mente e dalle visioni romantico pittoriche di Tim Burton. Big Fish, appena uscito nelle sale è la storia di un rapporto fra padre e figlio, ma sottintende, come ogni pellicola di Tim Burton, il legame che si stabilisce fra il narratore e lo spettatore. Tratto dall’omonimo romanzo di Daniel Wallace, scrittore del profondo sud tanto bravo a sfornare novelle surreali quanto magneti per frigorifero (come indica l’interno della copertina) ci porta a conoscenza di Edward Bloom un uomo dalla vita straordinaria. Partendo dalla città che lo ha dato alla luce, Ashton, egli diventa un mito per intere generazioni: campione sportivo, supereroe senza mantello né poteri ma pronto a salvare anche un San Bernardo (il salvatore per antonomasia), amico di giganti e gemelle siamesi, soldato intrepido e gigione, egli è soprattutto un instancabile cantastorie per grandi e piccini. L’unico a non voler ascoltare quelle bislacche avventure di ragni e topi, alberi magici e fiumi fatati è suo figlio William, uno dei pochi ad aver lasciato la terra dove è nato per cercare fortuna altrove, il quale, tornato all’ovile per assistere il padre negli ultimi giorni di vita, riscopre luoghi e personaggi plasmati dalla fantasia di un uomo che da sempre calpesta le nuvole.
Dopo la cupa e a tratti distratta rivisitazione de Il pianeta delle scimmie l’autore californiano si cimenta in uno dei suoi più personali omaggi al cinema dei mostri, da Fellini a Browning, con un ventata di irrazionalità alla Zemeckis per descrivere il valore della vita e riscoprire attraverso i ricordi, la personale relazione tra padre e figlio. Sfogliando le prime pagine del romanzetto di Wallace ci si accorgerà della dedica alla madre e alla memoria del genitore, ma un cineasta così sensibile come Burton non avrebbe mai potuto sfiorare l’argomento, per quanto affascinante fosse, senza esserne coinvolto da protagonista. L’esperienza personale della morte del padre William e la nascita del piccolo Billy, lo hanno catapultato improvvisamente nell’universo della maturità, senza tuttavia abbandonare stili e icone proprie del cinema fantastico al quale ci ha sempre abituato. Egli che ha dichiarato di voler far penetrare l’oscurità in un oceano di luce, qui si contraddice e, in modo inedito, si abbandona ad un affresco vivace e disteso sull’esistenza di un novello Ed Wood; ma se la maschera di Depp poteva apparire monocorde e uniforme tanto da scomodare “l’uomo della strada capriano”, il passaggio dalla giovinezza di Edward (McGregor) alla maturità (Finney) è strepitosa, come del resto anche sul versante femminile, Sandra ragazzina (Lohman) e l’adulta (bellissima Lange).
Le immagini superano il racconto: se le prime sequenze ricordano le paludose atmosfere alla Mark Twain con i bambini che si avvicinano alla casa della strega dall’occhio magico (ci torna alla mente la prima scena del film di Robert Aldrich Piano piano dolce Carlotta), la strada per Spectre, nella quale possono trasparire le ombre di mitiche civiltà, Atlantide o il Purgatorio, fa pensare al sentiero che conduce alla Città degli Smeraldi dell’Oz di Frank. L. Baum. Fiabe a prescindere si fa fatica a non scorgere, in quel clima festoso e gioviale, in quelle figure quasi eteree dove tutti danzano scalzi, compresi il poeta Norther Winsolw (l’ottimo Buscemi) che smarrisce la propria vena creativa, l’ennesima trasposizione del pastellato quartiere periferico di Burbank, California. Tornando alla battuta iniziale pronunciata dal cittadino più illustre di Halloweentown, Tim l’illusionista, lo stregone l’incantatore, si serve ancora una volta di uno script equilibrato (non semplice il lavoro dello sceneggiatore August) per parlare di se stesso nella maniera migliore possibile, attraverso la fantasia della realtà e il fascino della visione: pazienza se il finale riprende la sfilata carnevalesca di Otto e mezzo, perché avvolto in quella coperta non c’è Edward Bloom, ma lo stesso regista che saluta sulla riva del fiume i suoi amati outsider, in un crescendo elfmaniano commovente e suggestivo.
di Ilario Pieri