Giunti oramai al termine di questo festival è lecito affermare con totale sincerità di non riuscire proprio ad apprezzare l’ennesimo tentativo di rappresentare lo spazio che intercorre tra la vita e la morte attraverso la presenza inconcreta di un morto che ritorna. Dopo aver assistito all’imbarazzante ‘spiritualità’ di Placido ed al capolavoro visivo di Kim-Ki duk all’interno del quale si scopre l’assenza totale del peso dell’anima, sostenere Birth risulta veramente eccessivo. Jonathan Glazer si prende il disturbo di girare un film all’interno del quale, oltre ad utilizzare una Kidman dimessa sia come donna che come attrice, sembra fare un uso eccessivo della migliore tradizione dei film di stampo esoterico, impiegando riferimenti e citazioni visive. Un elemento al quale, soprattutto, la cinematografia di genere sembra non poter più rinunciare è la presenza ossessiva ed irritante di un bambino dallo sguardo pungente e vagamente minatorio. Il sesto senso docet. Infatti da quando il regista M. Night Shyamalan, nel 1999, ha realizzato uno dei più perfetti e meglio costruiti drammi psico-spirituali, si è aperto un flusso incessante che ha portato all’utilizzo spasmodico di bambini il cui compito, in un modo o nell’altro, è quello di rappresentare la parte oscura ed incomprensibile. Creature, per loro stessa definizione innocenti e pure a cui è affidato il compito di mostrare una natura vagamente demoniaca. Tirate le somme e visti i risultati successivi al grande impatto ottenuto dal Sesto sensoviene spontaneo sperare nell’interruzione immediata di questa moda cinematografica. Sostenendo il concetto che, forse nel cinema, non esiste una formula che, una volta applicata, garantisca un sicuro successo ed una innata qualità artistica.
Non è inopportuno affermare a viva voce quanto il giovane Cameron Bright, scelto dal regista per interpretare la parte di questo uomo/bambino, risulti assolutamente fastidioso, irritante ed incomprensibile, totalmente privo dell’intensità interpretativa Haley Joel Osmet che lo innalzò a vero co-protagonista accanto a Bruce Willis. Da parte sua Cameron riesce esclusivamente nell’intento di dotare il suo personaggio di una vitrea caparbietà, capace di renderlo più simile ad una creatura maligna che ad anima alla ricerca del proprio passato. Sorvolando sulle carenze narrative della sceneggiatura (non viene mai esattamente spiegato il momento in cui Sean ha la consapevolezza di essere l’incarnazione del marito di Anna e come nascano i suoi ricordi) e sulla ripetività dei dialoghi (Cameron non fa che ripetere “Io sono Sean” ed “Amo Anna”) non rimane che aggrapparsi alla scena del bagno, tanto decantata e condannata dalla stampa americana, all’interno del quale si spera, inutilmente, di rintraccaire un appiglio innovativo e coraggioso che, per quanto discutibile, poteva salvare l’intero, in parte, significato del film. Una speranza che si è infranta di fronte ad una situazione capace solo di creare un vago sentore d’imbrarazzo più per la mediocre resa visiva che per altro. Con questo non si vuole certo affermare una incapacità registica da parte di Jonathan Glazer. Dopo aver riscosso successo con il suo Sexy Beast (Candidato al BAFTA Award come miglior film inglese, Ben Kingsley ha ottenuto la nomination agli Oscar ed al Golden Globe) Glazer dimostra chiaramente la sua attitudine dietro la macchina da presa. Le inquadrature e, soprattutto, quella iluminazione gialla che inonda e “dipinge” totalmente gli ambienti interni ed esterni sono un chiaro riferimento al Pollack d’autore, peccato per un intreccio narrativo che non è stato in grado di sostenere il confronto con la tecnica, contribuendo ad una pessima e riveduta copia del genere Ghost.
di Tiziana Morganti