Sangue e notte, violenza e solitudine, incomunicabilità e prigioni in salsa coreana. Elegante in ogni dettaglio al limite del manierismo, eccessivo in ogni violenza al limite dello splatter questa storia di un gangster, esperto più nel corpo a corpo che nei rapporti umani, che si innamora della bella pupa del boss e, nel momento in cui dovrebbe ucciderla, perché scoperta col giovane amante, tentenna e la salva, andando così in faccia alla guerra, alla punizione, alla vendetta, tenta la carta del noir iperlaccato e nutrito di melò ma riesce ad andare, se non dritto al cuore, dritto ai sensi solo nei momenti in cui la lotta, la corsa e la morte di fanno coreografia. Ma spesso il ritmo latita, la sceneggiatura anche e i brandelli di saggezza zen, prologo ed epilogo di un finale di morte senza appello, risultano posticci, quasi d’accatto. È la vita non dolceamara come recita il titolo ma nerissima raccontata da Jee-Woon Kim che in Italia conosciamo come il regista di Two sisters e che qui tutto costruisce gravitando, con mestiere ma a tratti con superficialità, sul tema dell’amore impossibile e della vendetta, ormai vero marchio di fabbrica del paese. E allarmante segno, rimando, squillo di un mondo che sembra correre con in mente solo il guazzabuglio primitivo della lotta all’ultimo sangue, con armi e con corpi non conta ma conta che la sola certezza è che a vincere è sempre il più forte e che altri modi per far valere le proprie ragioni non si intravedono neanche all’orizzonte.
di Silvia Di Paola