Dal 25 ottobre il nuovo film del maestro, tratto dal libro di Ammaniti
«Grazie a questo film ho ricominciato a vivere. È arrivato a nove anni di distanza dall’altro, quando pensavo di non poterne fare più». Bernardo Bertolucci presenta a Roma il film Io e te con Jacopo Olmo Antinori, Tea Falco, Sonia Bergamasco, Veronica Lazar, Tommaso Ragno tratto dall’omonimo libro di Niccolò Ammaniti, nelle sale dal 25 ottobre. Il regista emiliano lo definisce «Un film sulla liberazione: i miei personaggi, due ragazzi soli, che si liberano, pensate un po’, ai Parioli».
Lui invece è “prigioniero” della sua sedia “elettrica” sulla quale è costretto da una malattia. Autorecluso in una città come Roma, matrigna con i disabili (e non solo), che lo costringe a non uscire dalla sua casa di Trastevere perché fuori dovrebbe affrontare un vero e proprio percorso di guerra. «Io vivo nella città proibita, ma non sono l’imperatore» dice ironico (riferendosi al suo kolossal cinese L’ultimo imperatore). Non perdendo l’occasione per attaccare la giunta capitolina, che non consente a chi non può salire normalmente i gradini, di raggiungere i musei e le sale del Campidoglio dove si celebrano i matrimoni. E non solo.
«Non c’è neppure una rampetta di legno mobile da tirar fuori quando serve e che certo non ne deturperebbe la bella facciata michelangiolesca» è la sua amara risposta all’insensibilità del sindaco Alemanno che ha risposto alle sue rimostranze su You Tube: «Una risposta patetica» taglia corto il regista». Bertolucci ha “rinfrescato” il film, che esce a cinque mesi dalla presentazione al Festival di Cannes, tagliandone qualche fotogramma.
«La storia di Ammaniti era molto difficile da rielaborare – racconta -, non mi piaceva il finale e l’ho cambiato. Il protagonista è un quattordicenne di oggi, io ho perso il contatto con gli adolescenti, era tempo che non ci parlavo, mi sono subito riadattato alla loro età – dice -. Non è una perversione guardarli con piacere, osservare il loro disagio di vivere». Come quello che prova Lorenzo, il protagonista, un ragazzo difficile che, per compiacere i suoi, finge di partire con i compagni di scuola per la settimana bianca. E invece si barrica nella cantina di casa, che ha rifornito con ogni genere di confort. A turbare la sua quiete piomba la sorellastra Olivia, tossicodipendente, che lo costringe a una sorta di iniziazione.
Non è stato un problema girare tutto in una cantina (abilmente ricostruita in studio) che non trasmettesse un senso di claustrofobia ma, al contrario, “claustrofilia”, amore per il chiuso. «C’è qualcosa nei luoghi chiusi che mi rassicura – confida -, era già successo con Ultimo tango a Parigi, L’assedio, The dreamers. Vediamo se riuscirò ad allargare i miei orizzonti anch’io. Quando decido di fare un film non penso al pubblico, è la mia arma segreta. Riflette il mio battito cardiaco, incluse le aritmie. In questi anni disperati dico ai cineasti italiani di fare qualcosa che sia a loro organico. Anche film interessanti sono puniti da una certa ansia, spero di invertire la tendenza del pubblico di andare poco al cinema».
Il finale doveva trasmettere un senso di liberazione. «L’ho girato due volte – ricorda – volevo un finale aperto, dove tutto è possibile. Il sorriso del ragazzo mi ha ripagato di tutta la storia vista prima». Ora che si è “liberato” anche lui vuole tornare presto sul set. «Ci ho preso gusto, girare per me è una terapia. Mi toccherà studiare qualche altro progetto, ma per ora non ne parlo, i miei film sono sempre in divenire, la realtà che mi circonda mi arricchisce enormemente».