Il film uscirà nelle sale il 15 novembre distribuito da Bim
Un omaggio a Pasolini con la macchina da presa puntata sul disagio dei giovani delle disastrate periferie delle gradi città. Una frase del suo libro Profezia è stata “rubata” dal giovane ma molto promettente regista Claudio Giovannesi che l’ha usata come titolo per il suo secondo lungometraggio Alì ha gli occhi azzurri, primo film presentato in concorso al Festival del Film di Roma e nelle sale dal 15 novembre distribuito dalla Bim.
Prodotto dal coraggioso Fabrizio Mosca con una buona partecipazione economica di Rai Cinema, il film ha come attori i veri protagonisti della storia di Nader, un sedicenne egiziano nato in Italia, che vive a Ostia, studia all’istituto alberghiero, e per sentirsi ancor più integrato con gli altri coetanei italiani, si mette le lenti a contatto azzurre e segue l’onda. I guai arrivano quando la sua famiglia araba, musulmana, gli proibisce di frequentare la fidanzatina, perché italiana e cattolica. Non accettando il divieto se ne andrà di casa, in cerca di sé stesso. Il suo carattere esuberante lo farà finire in una situazione assai rischiosa. Si ritroverà senza soldi, al freddo e quando scoprirà che il suo miglior amico flirta con la sorella, lo aggredirà minaccioso, restando davvero solo.
Una pellicola diretta, tosta e romantica, recitata con efficace semplicità dai ragazzi catapultati dalla routine della loro semplice vita quotidiana alla complessità del set. «Pasolini profetizzava l’avvento di una società multietnica – dice il regista romano trentaquattrenne -. L’adolescenza in un territorio ultra periferico oggi è multirazziale. Ho cercato di raccontare questa realtà, la vitalità e la complessità dei giovani, la turbolenta ricerca di un’identità che l’origine non italiana del protagonista rende ancor più difficile. Nader è per me l’emblema di questa seconda generazione nata in Italia, l’identità in bilico tra l’eredità della religione e delle leggi familiari e i costumi occidentali dell’Italia d’oggi. Il tentativo inconsapevole del protagonista di conoscere se stesso diventa nel film un racconto di formazione epico e quotidiano, che dura sette giorni».
A volte, sostiene Giovannesi, l’integrazione in queste zone si confonde con l’omologazione, con la perdita della propria appartenenza culturale e religiosa, per sposare il presente nichilista della società dei consumi. Questo conflitto è stato il punto di partenza per raccontare la battaglia quotidiana di Nader per difendere l’amore per la sua ragazza italiana che i suoi non accettano, vissuto quasi in clandestinità. «Per sfiorare la verità abbiamo fatto recitare i veri genitori di Nader, la vera ragazza di cui è innamorato, il suo miglior amico» spiega il regista. «Li abbiamo ascoltati, seguiti, passato ore sotto i loro palazzi – aggiunge lo sceneggiatore -, assorbito come spugne il loro modo di vivere. La parte più emozionante è stata passare tempo con loro».
«È stato complicato mimetizzarmi nel personaggio, tornare ai miei 16 anni – racconta Nader, oggi 19enne -. Allora mettevo davvero le lenti a contatto azzurre perché mi vergognavo di essere egiziano, seguivo la massa, andavo dove tirava il vento. Oggi sono totalmente cambiato, ho trovato una mia identità, sono orgoglioso di me stesso e delle mie origini. Ma il problema con mia madre che il film mette a fuoco ce l’ho tutt’ora. Oggi in Italia il problema è che si giudicano le persone da dove vengono e non per quello che sono e che fanno».
«L’integrazione è un processo dinamico – aggiunge il regista -, riguarda chi è qui e chi ci viene. C’è la speranza della ricchezza, del conflitto, che per me valeva la pena raccontare». E grazie alle insistenze di Mosca, Rai Cinema ha ampliato il budget iniziale, in attesa di una politica economicamente diversa che smetta di penalizzare i film che, come questo, raccontano le tante sfaccettature della nostra società. Come ha fatto Giovannesi, raccontandole in modo davvero equilibrato, trascinando emotivamente lo spettatore nella storia, al fianco di questo ragazzo che rischia davvero di sbandare.