Steven Soderbergh è un regista dal quale ci si deve aspettare di tutto: una rimpatriata goliardica fra vecchi amici (Ocean’s Twelve), un rifacimento pretenzioso su uno dei capitoli del cinema autoriale, Solaris, ma anche e soprattutto uno spaccato impietoso sulla provincia americana come Bubble, accolto in concorso al Festival di Venezia. La storia mescola gli stilemi del documentario tra carrellate fredde e raggelanti nella periferica e per nulla incantata Pleasentvillle d’Ohio, della fiction, con attori non protagonisti (perfettamente in parte), del thriller mistico, sostenuto da scenografie spettrali, e da un’operazione di marketing “low budget”, sperimentale e ardita, con distribuzione a vasto raggio tra sale, dvd e televisione. Il teatro del delitto entro il quale si divincola l’intera vicenda, un triangolo disperato, minimalista e agghiacciante, ha luogo in una delle pochissime fabbriche di bambole ancor in vita nella distratta regione americana. Come l’occhio del grande fratello, il regista mostra i caratteri dei personaggi, un giovane schivo affetto da crisi di panico, una ragazza travolta dalle difficoltà della vita dalla mano di velluto e una grassona di mezza età con padre invalido a carico.
I protagonisti sono riuniti nella stessa pigra, disarmante e soporifera routine, tra pranzi da McDonald’s ingurgitati con voracità, piccole frasi scambiate per soffocare il terrificante silenzio di un’esistenza monocorde e un lavoro, la creazione delle bambole, stadio finale di una catena di montaggio alienante. Tra momenti da cinema lynchiano,con l’ambiente lavorativo definito in tutto il suo orrore (la fotografia traduce in modo impeccabile l’ipnosi esistenziale della classe operaia) sequenze da detective story irrisolto (la caccia al colpevole si risolve in finale prezioso, non perfettamente compiuto) Soderbergh tenta di tornare con coraggio ai tempi di quell’indimenticabile gemma indipendente quale Sesso, bugie e videotape. La scelta degli interpreti è vincente, in particolare il personaggio di Martha, provetta lavoratrice stritolata dal bigottismo ossessivo, contribuisce a regalare alla pellicola un’aura di insolita e calzante ambiguità. I suoi occhi rivelatori nascondono segreti inconfessabili, ma, sommersi da una muta disperazione, comunicano, parlano, denunciano molte più problematiche di troppe parole gettate al vento. Questi individui si trascinano con l’istinto di sopravvivere in una società che offre loro sempre meno spazio relegandoli in case-container lontani da tutto, il divertimento, l’ambizione, la vita e forse, come accadeva nell’ultima fatica di George Romero, saranno costretti a emigrare in cerca di riscatto e finalmente di un posto tranquillo.
di Ilario Pieri