Un delicato affresco della cultura mongola. La regista Byambasuren Davaa (La storia del cammello che piange) dipinge con tocco leggero la storia semplice della famiglia nomade Batchuluum, composta da genitori e tre figli. A metà strada tra documentario e fiction, il film racconta uno dei tanti periodi di stasi di questa famiglia nomade che vive a stretto contatto con la natura e gli animali, sostentandosi grazie ai loro prodotti. La rappresentazione di un mondo bucolico, sereno, semplice e non compromesso dalla modernità, incorruttibile. I doni che il padre porta ai suoi bambini dopo un lungo viaggio di lavoro sono dolci caramelle e un tenero peluche rosa meccanico (unico elemento “tecnologico” in questo mondo fuori dal tempo e dallo spazio). Un universo reale che ancora è possibile, ma solo in quella parte di mondo così incontaminata e lontana, tanto distante da noi. Per gli “occidentali” questo è uno stile di vita estremamente incomprensibile, è difficile comprendere una cultura così diversa dalla nostra, così silenziosa, non urlata, priva di violenza, strettamente legata all’idea tradizionale di famiglia (quella che per noi è solo uno sbiadito ricordo). La favola del cane giallo è anche la metafora dello scontro tra queste due civiltà. Infatti il cane è il negativo, ciò che ci impedisce di ottenere ciò che vogliamo. Perché come insegna la madre alla sua bambina, non si può avere tutto ciò che si vede. È qui rintracciamo l’essenza della nostra società, avere e volere tutto senza desiderare veramente nulla.
In questa storia i desideri sono semplici al limite del paradosso, come quello di possedere un cane da parte dell’incantevole bimba protagonista. I bambini, e il cane, sono i personaggi principali. L’infanzia qui mostrata sottolinea l’ennesima differenza con la nostra società. È come se i bimbi fossero già adulti, hanno responsabilità e fanno giochi pericolosi. Si riflette quindi sul concetto di evoluzione, e per noi è inevitabile chiederci chi sia più evoluto, se i nomadi mongoli che vivono di sussistenza o se noi giocatori di Playstation firmati D&G. La risposta non è la più ovvia. La difficile convivenza tra nuovo e antico è quindi mostrata tramite il conflitto tra il padre e il cane Macchia, il cane è il migliore amico dell’uomo, e per la cultura mongola l’uomo si reincarna cane per poi tornare uomo. Si sottolinea dunque la difficoltà di rinascere uomo. Speranza che si rinnova grazie al salvataggio del bambino più piccolo compiuto proprio dal cane randagio. Speranza che qualcosa di nuovo possa nascere. I limiti del film sono da rintracciarsi nel doppiaggio, troppo recitato e per questo stonante col timbro documentaristico. Per apprezzare un’opera tale è indispensabile avere in dotazione una particolare sensibilità, che non tutti possediamo.
di Claudia Lobina