Se sarà la tela del ragno o l’artiglio del gatto a scalare la vetta dei botteghini di fine estate, solo il tempo potrà dirlo. Noi intanto possiamo azzardare una preferenza per l’arrampicamuri, vista la diversa concezione dei due film, artistico l’uno e orgiastico l’altro, sebbene siano entrambi ispirati ad un fumetto di successo. Pitof, dopo spot pubblicitari e un passato da montatore, si fa pioniere dell’effetto visivo digitale al servizio della mistificazione dell’immagine illusoria, dopo un film come Vidocq che, per il fatto di essere stato realizzato in Francia, fece a suo tempo notizia. Un paesaggio/personaggio color petrolio con una sua autonoma consapevolezza, è quello che inghiotte la povera Patience Phillips per restituirla a nuova vita con baffi e artigli. Un dono del digitale e della fotografia di Thierry Arbogast, ma che troppo spesso dà l’idea di muoversi all’interno di una realtà virtuale. Dopo la scena di risveglio liberamente tratta da Batman Returns di Tim Burton ecco l’eroina in abito fetish a sconvolgere la vita e le fantasie sessuali degli abitanti della sua città e non solo. Il film è visibilmente incentrato intorno a lei, Halle Berry, posta su un piedistallo di sensualità e bellezza, che si muove sullo schermo tra ancheggiamenti e ammiccamenti. Sharon Stone, la sua antagonista, sembra si sia preparata una parte da rendere sia nel film che in conferenza, quella della modella usata e poi accantonata quando il “generale tempo” inizia a corroderla dentro e fuori. È lei che, oltre ad affermare di essere stata accantonata dopo i quaranta da quella Hollywood che ti usa ed abusa, ad assumere la voce di un purismo femminista tanto presente in Catwoman.
Ma dal 1940, anno della nascita del fumetto, di passi avanti ne sono stati fatti. Questo, oltre alla critica all’abuso della cosmesi e al cattivo e vanesio uso del bisturi, hanno reso Catwoman un insano strumento nelle mani di una società occidentale che non ne ha più bisogno. Frasi come «sono una donna quindi sono abituata a fare quello che non voglio» e «tu provi un senso di libertà che le altre donne non hanno, una fiera indipendenza», lasciano un po’ il segno. In effetti il personaggio della donna-gatto sembrerebbe ispirato alla dea egizia Bast, protettrice e vendicatrice delle donne, raffigurata con volto di gatto. Ma quelle prigioni sepolcrali fatte di pregiudizi e antiche concezioni non hanno valore in società evolute dove la libertà muliebre è più nelle mani dell’individuo che del sociale. In effetti è curioso che sia la Berry stessa a scegliere simbolicamente di ritornare in cella su richiesta dell’uomo che ama, quel Benjamin Bratt che la Stone ha preteso per il sequel di Basic Instinct. Affermazioni dunque troppo ingenue e semplicistiche, anche riguardo le critiche mosse in conferenza sul bisturi facile che, mentre porta personaggi come Michael Jackson a perdere i pezzi per strada, permettono a lei di diventare inequivocabilmente sempre più bianca. Curioso nel film il personaggio della mentore Ophelia Powers che istruisce la Phillips sulle sue nuove facoltà, gettandola da una balaustra. Si tratta di Frances Conroy, già vincitrice di un Golden Globe e candidata due volte agli Emmy per il ruolo di Ruth Fisher nella serie di successo Six Feet Under. Il merito della Berry rimane quello del sapersi muovere gattoneggiando con disinvoltura per la città virtuale di Pitof, alternando mosse di Capoeira a sonore frustate in grande stile. Chissà, forse gli autori si sono accorti che il film stava diventando un po’ troppo per “maschietti”.
di Alessio Sperati