La leggerezza tecnica, ossia una macchina da presa a mano piccolissima che nervosamente e con un montaggio serrato segue le vicende di una rock star caduta in disgrazia, tossicomane all’osso, interpretata dall’ineguagliabile Maggie Cheung, che prima di essere moglie ispiratrice di Olivier Assayas, il regista del film presentato a Cannes 57, è stata star del cinema made in Hong-Kong, indimenticabile nelle pellicole di Wong Kar-Way. Poi il tono da melodramma trattenuto, intenso, come se Assayas diventasse il Douglas Sirk post ’68 d’oltralpe, dove il centro del dolore viene continuamente procrastinato fino ad un liberatorio pianto finale. Infine il cosmopolitismo di chi narra la vicenda di una Courtney Love con le sembianze (ben più appetibili) di Yoko Ono che guarda senza sentimentalismi alla sua discesa negli inferi dalla tossicodipendenza alla morte del marito per overdose, fino all’allontanamento del figlio per indegnità materna e al tentativo sprezzante e difficile di riprendere le redini della sua vita, non solo per riprendersi l’affetto filiale, ma per dimostrare che la sua condotta esistenziale porta dritti verso l’alienazione e l’esclusione sociale.
Se gli interni di Parigi, Londra o Vancouver sono tutti uguali ed egualmente asettici, anche le strade londinesi si confondono con quelle parigine e la differenza sembra farla il corpo di Cheung/Emily, umiliata nelle sue nevrosi, poi redenta da altre forme di alienazione “new millennium” (la sua ex amante ed amica Jeanne Balibar intristita e cinica nel suo status di capo azienda in una catena televisiva è lo specchio convesso di una realizzazione professionale a scapito dell’affettività). Assayas non dà credito alle parole e sia la Balibar che Béatrice Dalle vivono i loro personaggi nel non detto, negli ammiccamenti che non riescono a dare una nuova linfa vitale alla loro amica (anche se la Dalle si libera da un maledettismo divenuto cliché), lontana da loro perché è andata all’inferno con la prelazione di poter tornare almeno in purgatorio. Il cinema del parigino è nel suo momento migliore, il suo umanesimo non è dettato da urgenze particolari, l’emotività è “calcolata” e attraversata da altri mondi artistici e dalla lezione di levità impartitagli dai suoi amati maestri orientali, da Mizouguchi a Hou Hsiao-hsien. Diverso e contiguo rispetto ai padri putativi della Nouvelle Vague.
di Vincenzo Mazzaccaro