Le madri “locas” di Plaza de Mayo gridavano ” nunca mas” ( mai più) in nome dei loro figli torturati ed uccisi durante la dittatura militare. Da parte loro quei trentamila desaparecidos, vittime dell’oppressione del generale Videla, hanno costruito le basi per una nuovo paese che, a distanza di trent’anni, sente il bisogno di raccontare una ferita profonda ed ancora aperta. Dalla fine della dittatura ,avvenuta nel 1982, il cinema argentino ha costruito tutto un filone di denuncia sociale al centro del quale è stata posta la sofferenza fisica e morale di un popolo soggiogato e distrutto. Esperimenti cinematografici come Garage Olimpo e La notte delle matite spezzate riassumono perfettamente le caratteristiche di un genere che si è armato della forza spietata di una brutalità visiva per imporre di fronte agli occhi del mondo, quello stesso rimasto inerme negli anni terribili, il proprio coraggio e l’altrui viltà. Ma come è accaduto per il tema dell’Olocausto, che in questi ultimi anni ha trovato altre chiavi di narrazione, anche per l’esperienza argentina sembra arrivato il momento di cambiare prospettiva e punto di vista. Questo non vuol dire negare il problema od affrontarlo con una leggerezza che rischia di apparire dissacrante, ma con la franchezza e il ritmo di una generazione nata successivamente agli eventi. Il giovane regista Israel Adrián Caetano è di nascita uruguayano ma cresciuto in Argentina, non ha subito alcuna perdita all’interno della sua famiglia a causa della dittatura militare e per questi motivi, probabilmente, è riuscito a regalarci un film che va contro qualsiasi tentativo di rimozione storica attraverso una nuova e moderna coscienza civile arricchita da forma e stile. La dove prima inneggiava il principio assoluto di tortura, inserisce una concezione inaspettata di umanità che abbraccia tutti, aguzzini e vittime. Attraverso una macchina da presa a spalla, la resa granulosa delle immagini ed una concezione claustrofobica degli ambienti si viene proiettati immediatamente all’interno di una atmosfera inquietante e destabilizzante.
Caetano non ha alcuna intenzione di fare sconti sulla brutalità del sistema e sulle condizioni disumane di sopravvivenza, ma evita la morbosità stessa delle immagini lasciandoci alcuni campi sfocati e non abbandonando mai il punto di vista dell’uomo. La macchina da presa è sempre a distanza ravvicinata, quasi tutt’uno con il protagonista, si trasforma nei suoi occhi e nello sguardo sconcertato e disorientato che abbraccia carcerati e carcerieri. Indaga nelle nudità dei corpi e dell’anima, livellando tutti attraverso un totale assenza di pietismo. Caetano rischia molto e mette in gioco la riuscita e l’apprezzamento dell’opera proprio da un punto di vista strettamente ideologico e narrativo. Il denudare le due parti storicamente avverse delle loro accezioni naturali, vittime e carnefici, vuol dire rimettere in gioco ruoli storici attraverso principi più sottili e sofisticati. Il risultato è vincente. Pur delimitando con fermezza la linea che distingue il giusto dall’ingiusto, il regista uruguayano riesce nel tentativo di raccontare un microuniverso privo di coscienza e controllo, composto da una collettività sempre in bilico tra follia e crudeltà. Così facendo si muove con delicato equilibrio tra tradizione ed innovazione, tralasciando la ricostruzione storica in nome di una creazione di atmosfere, umori e sensazioni capaci di vivere indipendentemente dall’evoluzione della storia ed in assenza di molti dialoghi. Cronaca di una fuga, tratto dal libro Pase libro di Claudio Tamburrini, è un film decisamente sensoriale e visivo che mira a raccontare l’annullamento stesso dell’uomo. Che si venga feriti nel corpo e nell’anima o che si diventi aguzzini, al di sopra di tutto si innalza la negazione di una dignità umana che, alla fine dei conti, accomuna tutti in un disorientamento senza ritorno.
di Tiziana Morganti