Tra revisionismo “reality” e analisi microfilmica, tra la vecchia e la nuova Europa del tubo catodico, si muove la timida macchina da presa di un regista tedesco che ha l’ardire di rompere i sigilli del führerbunker in un film che non prende posizioni ma si limita a raccontare. La caduta di Oliver Hirschbiegel inizia con un colloquio di lavoro, dove alcune aspiranti segretarie attendono di conoscere il loro futuro (sperano) datore di lavoro: Adolf Hitler. Niente trincee né comandi di battaglione, siamo in un ufficio dall’arredamento sobrio e ordinato. Comprendiamo subito, con l’entrata in scena dei due protagonisti, le intenzioni narrative di questo racconto “familiare” di una corale discesa all’inferno, reso possibile dal libro di Joachim Fest e dalle memorie della giovane ragazza scelta poi tra le altre per diventare la segretaria personale del Führer, Traudl Junge. Dopo il breve preludio ci trasferiamo al 20 aprile 1945, due anni e mezzo più tardi, durante i giorni in cui le truppe tedesche sono allo sbando e Berlino sta per cadere sotto le cannonate dell’esercito bolscevico. Mentre sopra, la città brucia portando con sé gli ultimi disperati gesti di eroismo isterico, Eva Braun, ritratto gelido di una regina dell’antica Grecia che offre banchetti orgiastici agli dei prima della sua decapitazione, insieme a tutto lo Stato Maggiore del Terzo Reich, si prepara a una disfatta che pare ormai inevitabile.
Qui ha luogo il dramma, un suicidio di massa motivato dalla fine del sogno, dal crollo dell’illusione nazionalsocialista, e nella sua rappresentazione il regista si mostra quantomai passionevole scostando la macchina da presa quando sono i “grandi” a morire e lasciandola impietosamente lì per ogni “insignificante” pedina della scacchiera. Non si può tuttavia rimanere indifferenti di fronte alla lucida preparazione di mamma Goebbels per il banchetto sacrificale dei suoi cinque figli, uccisi facendo bere loro del sonnifero per poi schiacciare nelle loro bocche fialette di cianuro. Le scelte stilistiche di questo film sono tante e talmente particolari da sollevare ovviamente correnti di pensiero opposte: se nella rappresentazione dell’apocalisse collettiva Hirschbiegel prende delle posizioni, non lo fa invece dal punto di vista narrativo, costruendo un film corale dove manca un chiaro e preciso punto di vista, compreso il suo. In effetti a mancare è anche un preciso metro stilistico di un regista che si limita a muovere il suo occhio meccanico attraverso porte socchiuse e strade dissestate. La caduta parla di Hitler ma non è un film su Hitler; parla della sua segretaria, testimone (inconsapevole?) di un genocidio, e di un medico devoto alla patria che, se non avesse quelle croci uncinate addosso, potrebbe sembrare un eroe popolare. Non siamo d’accordo con le tesi “banalizzanti” di Wenders e della Cavani pur riconoscendo che, a parte le farneticazioni isteriche rappresentate da un bravissimo Bruno Ganz, è difficile riconoscere nell’architetto Speer e nel dott. Schenk il paradigma dell’ufficiale tedesco a cui la fiction ci ha abituati. Il merito di un film come La caduta non risiede dunque in quella indulgenza espositiva che tanti gli hanno addossato, quanto nel tentativo di decentrare l’attenzione da Hitler stesso: delegittimando il “mostro” della sua unicità ci si rende consapevoli che è più folle non chi lo è realmente, ma chi lo segue incondizionatamente.
di Alessio Sperati