Vertiginosa parabola anti-Usa dove teatro, cinema e letteratura si congiungono su di un Monopoli dall’unica regola: attenzione alla stupidità…al mondo non c’è peggior strumento di distruzione…
Un annunciato trionfo a Cannes si è trasformato in una trappola verso un pubblico imbarazzato, in effetti la vittima non è Lars von Trier che ha teso la sua personale vendetta con il linguaggio che conosce meglio, ma il pubblico stesso, quello d’oltreoceano. All’accusa mossa dalla stampa, in epoca Dancer in the Dark, di non poter parlare del continente americano non avendolo visitato, egli risponde con una trilogia anti-americana di cui Dogville è il primo, potente tassello. Mutilato di 40 minuti, il film tradisce in toto o quasi il Dogma del suo creatore, unendo finzione scenica a teatrale autorialità, non risponde a criteri ma li fabbrica sotto mentite spoglie di autoreferenzialità. Uno spazio circoscritto ma esploso, sgombro all’interno dove tutto avviene apertamente e nascostamente al contempo, un gioco narrativo, un Monopoli di vita vissuta dove ogni pedina è sacrificabile perché chi fa le regole non partecipa al gioco stesso. Al centro della vicenda una quanto mai tipica cittadina sita alla base delle Montagne Rocciose, nel Nord America, abitata da cittadini coperti nel loro bigotto modus vivendi pieno di stupide usanze, fetide giustificazioni di mille nefandezze. Nel descriverci la loro bassezza in effetti il film annoia nella sua prima parte, quando questi teatralissimi personaggi prendono via via la loro forma nel vuoto scenico. C’è però da riconoscere l’abilità innegabile di recitare in uno spazio scenico con porte, pareti e finestre fittizie, mentre una macchina da presa gira intorno agli attori, cosa che non si vede spesso sul grande schermo. Nicole Kidman dimostra ancora di essere materia prima per un autore che ha voglia di sovvertire le regole, e in effetti dopo Kubrick lei sembra averci preso gusto alla grandezza; di Paul Bettany non possiamo tessere abbastanza lodi di quanto non lo faccia il suo curriculum di pochi ma importanti film, tra cui A Beautiful Mind, questo e Master & Commander dove lo vediamo tener grandemente testa a un ispirato Russell Crowe.
La Via Crucis dell’Angelo. Affascinante e dissennata parabola sulla democrazia, Dogville esce dagli schemi per assalire brutalmente il modello di vita americano e per farlo si serve di uno dei suoi più riusciti prodotti, un angelo vendicatore, una diva come Nicole Kidman, vittima e carnefice di una passione che non redime ma punisce, che smaschera. All’interno di un tempo scenico che è scandito dalla sciocca collezione di alcune bambole di porcellana, lentamente si pongono i tasselli di una Via Crucis in cui l’Angelo viene osservato, studiato, invidiato e poi odiato. Incredibile l’abilità dell’autore nel comporre la via verso la distruzione (stupore -> ammirazione -> invidia -> gelosia -> odio -> distruzione -> vendetta) che è poi la rovina dell’essere umano votato all’annientamento di ciò che è superiore a lui. Nel suo film von Trier si diverte a rendere molto labile il confine tra bene e male lasciando libero lo spettatore di saltellare più volte da una parte all’altra di questa sottile linea di confine. Siamo molte volte indotti a parteggiare più per i gangster che per i perversi e arroganti cittadini di Dogville, ma del resto ci chiediamo: chi è il vero criminale, chi lo fa apertamente o chi lo fa spacciandosi per santo? Grace (la Grazia) viene offerta come un agnello sacrificale, come un dono, un potere, un anello tolkeniano di cui si può rimanere irrediti e attraverso cui si viene deviati: prima i cittadini studiano il loro dono, poi ne abusano. Il Messia in questo caso non ha una morte redentrice ma è esso stesso giustiziere, con l’arma della fiamma purificatrice rende la città una novella Sodoma e salva l’unico testimone involontario, il cane Mosé. Tante le sfaccettature pseudo-religiose dunque, ma attenti al monito del regista di voler vedere più cose di quante egli stesso non abbia voluto dire.
L’apertura interna dello spazio scenico e l’essere umano come pedina. Le origini del male. Un po’ brechtiano un po’ ispirato alla Shakespeare Company, un po’ a La cittadella di Thornton Wilder, la Dogville di Lars von Trier (parodia già nel suo nome) non ha barriere architettoniche interne, ma non può fuggire da se stessa, è chiusa verso l’esterno, non ha scampo diremmo noi. La vita al suo interno scorre apparentemente con normalità e tutte le nefandezze che Grace è costretta a subire avvengono dietro pareti immaginarie, geniale parafrasi del termine “indifferenza”: un luogo scenico dove tutti possono guardare, ma nessuno sembra vedere. Al paragone con quello che sta succedendo nel mondo vengono i brividi a pensare quanto l’arte permetta salubri e mortali metafore nelle mani di chi le sa usare con maestria. La distruzione delle bambole di porcellana è un annientamento del sé, quando l’essere umano, in particolare la madre di famiglia si trova di fronte alla sua manifesta inferiorità, alla sua meschinità unita a quella di chi le sta intorno. L’uomo come pedina del suo vivere in modo socialmente utile, si incanala entro binari che lo conducono alla disconoscenza del sé e quindi alla sua distruzione o alla distruzione dell’altro da sé. È proprio attraverso questa perdita di umanità che Lars von Trier ci guida attraverso la scaturigine del male assoluto, mostrando un po’ la stessa metafora artistica utilizzata da Marco Bellocchio in Buongiorno, notte in cui l’uso dei ‘putti’ siciliani denotava quella perdita di umanità di cui erano soggetti gli schiavi del “regime Br”, ormai perduti all’interno di azioni condizionate dalla Società o dal gruppo in cui erano entrati. Senza alcuna via d’uscita, proprio come la cittadina di Dogville.
di Alessio Sperati