Dopo aver visionato le immagini dell’ultimo lungometraggio del regista Mikael Hafstrom, i dirigenti della Miramax devono aver avuto la tangibile convinzione di trovarsi di fronte ad un chiaro deja-vu cinematografico, una sensazione che, probabilmente, li ha indotti ad assicurarsi immediatamente le capacità artistiche di questo nuovo ed acclamato talento svedese. Infatti da Gioventù bruciata a Fronte del portofino a sfiorare le ambientazioni e le motivazioni idealiste di L’attimo fuggente, Evil il ribelle mette in scena, attraverso delle chiare citazioni ed una scelta registica ben precisa, il miglior cinema americano, concedendo al protagonista Andreas Wilson, per altro dotato di una recitazione immediata e particolarmente avvolgente, la possibilità di indugiare, forse con un pizzico di manierismo, su quella trattenuta e combattuta violenza tipica degli eroi maledetti all James Dean, Marlon Brando e Montgomery Cliff. Sguardi torvi, desiderio di rivalsa ed un forte idealismo che si esprime nella chiara opposizione a qualsiasi omologazione sociale che porti ad un cieca umiliazione, costituiscono l’ossatura sulla quale Hafstrom costruisce e riproduce in immagini il romanzo autobiografico di Jan Guillon (il suo libro ha venduto in Svezia più di due milioni di copie e tra Febbraio e Marzo verrà distribuito anche in Italia), una vicenda che narra l’evolversi e lo svilupparsi della violenza all’interno di un prestigioso collegio svedese degli anni Cinquanta. Un orrore ed una consuetudine divenuta oramai tradizione che si riesce a percepire in senso assoluto nei momenti in cui l’amore per la pulizia visiva e l’immagine classica lascia spazio all’irrompere delle emozioni.Bisogna scavare sotto questa apparenza così fortemente “americana” per rintracciare l’essenza stessa, la motivazione del film, il cuore di una vicenda che dovrebbe essere posta al di sopra di qualsiasi scelta od influenza stilistica.
Lungi dal mettere in dubbio le capacità tecniche e registiche di Hafstrom, per non parlare della sua cultura cinematografica, rimangono dei dubbi sulla completa riuscita di questo suo ultimo lavoro non tanto per le note un pò stucchevoli e romantiche in cui cade dopo la prima mezz’ora, ma quanto per quello spirito universale che anima tutto il film. Una universalità che, probabilmente per la prima volta, si esplicita non solamente nel significato più positivo del termine. Se da un lato il regista svedese è riuscito sicuramente nel tentativo di progettare e concretizzare una avventura cinematografica caratterizata da ideali e pensieri facilmente esportabili (ne è un esempio la sua chiamata ad Hollywood da parte della Mramax e la candidatura del film agli Oscar 2004 come Miglior Film Straniero), dall’altro ha rinunciato completamente ad esprimere una qualche determinazione geografica e, soprattutto, sociale. Ci troviamo di fronte ad un’opera di origine svedese con ben poche caratteristiche nordiche. Tra una ambientazione del tutto neutra (mai compaiono paesaggi innevati o ghiacciati che interagiscono profondamente con la quotidianità del popolo svedese) e gli affettati atteggiamenti in perfetto “british style” , bisogna attendere delle rare immagini di quotidianità domestica per rintracciare la Svezia nell’architettura interna di un’appartamento o nelle abitudini alimentari. Dunque una universalità che sa molto di neutralità e che caratterizza l’opera con una certa omologazione stilistica e, fatto certo non positivo, culturale. Certo è affascinate ed inebriante l’idea di essere l’oggetto delle attenzioni di una grande casa di produzione e distribuzione come la Miramax, ma è altrettanto più soddisfacente riuscire ad imporsi senza compiacere e citare stili che sono tipici di altre culture, dando libera possibilità di espressione ai propri. Una scelta appoggiata e perseguita da film come Noi Albinoi e Kitchen Stories (film norvegesi della passata stagione), pellicole certo di minor richiamo popolare ma di maggior impatto stilistico.
di Tiziana Morganti