Umano, troppo umano. Come il desiderio di conservare attraverso le immagini non qualche ricordo ma ogni ricordo: gli occhi come la nostra memoria. Basta un microchip installato nel punto giusto del cervello e tutta la nostra vita verrà memorizzata in soggettiva per sempre, solo noi che guardiamo (e riprendiamo) non entreremo nell’immagine ma siamo gli onnipresenti. Almeno nel filmato della nostra vita che, ovviamente, alla nostra morte, qualcuno dovrà tirar fuori e proiettare da qualche parte. Ma una vita intera in un film non può entrare di sicuro e, dunque, bisogna tagliare, selezionare, manipolare e, alla fine, ciò che conta, ciò che dà un significato (uno solo tra tanti possibili) è il montaggio. Alla fine resta una “rememory”, un filmato lungo due ore, costruito con brandelli delle nostre memorie da un montatore che, di fatto, del microchip contenente tutta la nostra vita fa ciò che vuole. Anzi, ciò che gli altri si aspettano: ripulisce, riassorbe, riordina, cosicché alla celebrazione della nostra morte tutti potranno commuoversi di fronte alla nostra vita edulcorata sino allo stremo e ridipinta in bianco candido. Alan Hackman (Robin Williams) fa questo di mestiere: monta le vite degli altri. Soprattutto smonta: si chiude nella sua “guillotine”, tecnologica e domestica insieme, perfetta e artigianale, concepita come un enorme, avvolgente strumento musicale, e, mentre ore infinite di vite di altri gli scorrono davanti, valuta e sceglie, sposta e taglia. Alla ricerca di un senso che tutti cercano, un senso qualunque, banale ma rassicurante. Appunto, adatto a un film da mostrare in memoria di un defunto ancora a un passo da noi.
Lui (con i montatori della “Zoe Tech”) è un po’ un demiurgo, a volte ama definirsi “un divoratore di peccati”, ma che succede se si imbatte, per caso, in una colpa che gli appartiene? Vorrà cancellare anche quella, perdonare se stesso come tutti gli altri, o vorrà cercare un altro senso? L’universo sospeso e atemporale voluto dal ventisettenne scrittore-regista esordiente Omar Naim per raccontarci questa storia nel suo The Final Cut una risposta ce la dà, anche se il film nasce per caso e per curiosità e da una domanda che di risposte non può averne nessuna: l’oggettività esiste davvero? Se lo è chiesto il giovane Omar mentre stava montando il film sulla sua tesi di laurea, Grand Theater: A Tale of Beirut, un documentario: «Avevo letto molto e fatto molte interviste e mi rendevo sempre più conto che, a seconda di come assemblavo il materiale, il senso del girato cambiava radicalmente. Non è una grande scoperta, so che molti registi se ne rendono conto quasi subito ma è anche vero che esiste un falso mito sull’oggettività contro cui mi imbattevo nel lavoro di montaggio. Così mi è venuta l’idea della storia di un montatore in una cornice molto quotidiana anche se non riconoscibile e in cui nulla è fantascientifico se non l’idea dei microchip collocati nel cervello del bambino alla sua nascita, come un regalo che i genitori gli fanno perché tutta la sua vita venga registrata attraverso i suoi occhi e almeno i momenti più belli non siano destinati a svanire».
Così Naim, che è riuscito a far arrivare la sua sceneggiatura sotto gli occhi di Jonathan Nossiter che, a sua volta, ha coinvolto nel progetto il produttore Nick Wechsler e l’idea è diventata film. In lussuosa confezione: con direttore della fotografia che risponde al nome di Tak Fujimoto (lo stesso de Il silenzio degli innocenti per intenderci), con una montatrice mitica come Dede Allen e con un cast che, oltre al protagonista Williams (che avverte «Non si tratta di una storia come un’altra perché sono stati ultimamente pubblicati un sacco di articoli sugli impianti e sui modi di registrare la memoria e questa è anche l’ultima tendenza dell’home-movie. Tutto è iniziato con la fotografia digitale e oggi la gente mette le cineprese nelle camere da letto, per vedere tutto»), comprende Mira Sorvino in un insolito ruolo molto sfumato e Jim Caviezel quasi irriconoscibile sotto la barba. Tutti bravi e al posto giusto al momento giusto, sembra, anche se non ci convincono, non ci trascinano, non ci allettano neppure un momento, in questo esordio formalmente perfetto e, quasi, puntiglioso, ambizioso ma algido. Esattamente come l’ottimo Williams: impeccabile ed efficiente, distaccato e malinconico nella prima parte e, poi, disperato e angosciato nella seconda, quando in gioco c’è la sua vita e non più le vite di altri.
di Silvia Di Paola