Un vecchio trombettista che pensa di aver perso ogni amore a parte il blues e un giovane patologicamente chiuso in sé che un amore non l’ha mai avuto. Un incontro in cui i due potrebbero solo sfiorarsi e andare oltre, perdersi, che si fa, invece, svolta, sconquasso o transizione. Da una vita all’altra. L’immagine è nota. E lo schema narrativo anche. Ma il racconto del vecchio chiuso in una disillusa stanchezza ma, in fondo, desideroso che qualcuno lo scuota ancora e del giovane chiuso alla vita ma desideroso di aprirsi è uno di quelli buoni per ogni stagione, anche se meno facilmente maneggiabile di quanto non sembri perché la banalità è in agguato a ogni svolta. Ma Franco Nero ci pensava forse da troppo tempo per temere qualcosa. Qualunque cosa. La decisione di debuttare con una storia-parabola deve averla macinata persino troppo a lungo e, quando l’occasione si è presentata, lui si è buttato. Anima e corpo di attore ma anche di regista, sceneggiatore e produttore. E ragioniere puntiglioso perché «Il budget era davvero limitato ed io ho dovuto centellinare ogni metro di pellicola».
Forever Blues, con un cast in cui compaiono anche il trombettista Michael Supnick, il piccolo Daniel Piamonti, Lino Patruno (al banjo) Minnie Minoprio (nel ruolo della cantante), Paola Saluzzi, Robert Madison, dal 17 marzo sui nostri schermi dopo essere stato presentato – e applaudito la scorsa settimana a Los Angeles all’Italian Film Fest, è il risultato di questo azzardo in cui, dice Nero, «Mi sono diviso in quattro e ho scoperto che, se la mia esperienza di attore è servita anche lavorando sul set come regista, la cosa più difficile è dirigere se stessi, io non facevo che guardare e riguardare il girato anche se sapevo come la scena era venuta, se era quella giusta o meno, ma mi sentivo indeciso, appena ansioso».
Ma, oltre il debutto e l’azzardo desideroso che vi gravita intorno, Nero ha molto da dire di questa storia per la semplice ragione che a dettarla è stata una passione di sempre e un impegno di domani. Che comincia da oggi. L’impegno è nell’interessamento verso i più sfortunati cuccioli del mondo, verso i bambini cui la malattia strappa l’infanzia. E il bambino malato protagonista del film combatte questa battaglia contro il solito muro di variegate indifferenze. Ma ciò che più rende corposo l’azzardo di questo film è l’aver stretto insieme questa battaglia (perché tale lui la considera) con una passione nutrita da sempre: la passione per il blues e per Louis Armstrong. Come a dire, anzi a ricordarci, che nella musica può dirsi – a volte farsi – ogni battaglia, cercarsi ogni comunicazione, salvarsi comunque. Basta saperla ascoltare, usare, maneggiare, accarezzare.
di Silvia Di Paola