Con Fragile lo spagnolo Jaume Balagueró torna a parlare di fantasmi, intesi qui come l’espressione e la metafora delle paure che si annidano nell’animo umano, e lo fa restando fedele al genere che predilige e che lo ha reso famoso: l’horror. Chi aveva apprezzato i precedenti lavori del regista resterà tuttavia deluso: Fragile, infatti, ha ben poco della potenza visiva e della tensione emotiva di Nameless o Darkness e ha soprattutto, come limite più grande, quello di aver sfruttato personaggi e spunti narrativi ormai inflazionati negli horror degli ultimi anni (primo fra tutti il ruolo del bambino sensitivo che sembra essere diventato un ‘must’ in film del genere). Questa mancanza di originalità pesa irrimediabilmente sul film, lo rende prevedibile e ne impedisce il vero coinvolgimento da parte del pubblico.
I pochi momenti di tensione, quando ci sono, crollano uccisi da una colonna sonora eccessiva e invadente e da una macchina da presa che rivela più di quanto dovrebbe, rendendo vano l’intero progetto del film e togliendo fascino e mistero alla storia. Dispiace certamente per Calista Flockhart che con la sua interpretazione è quasi riuscita a scrollarsi di dosso il ruolo di semplice attrice televisiva mostrando un lato di sé diverso e inedito. Il suo personaggio, quello di un’infermiera che convive con dei forti sensi di colpa legati a un passato da dimenticare, non viene approfondito adeguatamente ma affrontato solo superficialmente ed esclusivamente in rapporto al mero svolgimento della storia. Balagueró evita quindi scelte troppo coraggiose e preferisce ripercorrere strade già battute da altri prima di lui; il risultato, però, è un film in cui non c’è niente che non sia stato già visto o sperimentato. L’accoglienza tiepida del pubblico di Venezia a fine proiezione è, mai come questa volta, giustificata.
di Valentina Domenici