Così Edgar Reitz arriva al numero 3, correndo sulle stesse coordinate letterarie da cui era partito, intessendo da maestro la malinconia alla fiducia di sempre, il pessimismo dettato della realtà all’energia dello sguardo su un domani che può sempre riservarci ogni cosa, la nostalgia per ciò chi si perde allo stupore per ciò che ci afferra imprevedibilmente. Non a caso su un incontro, imprevisto e imprevedibile, si apre questo primo episodio di Heimat 3 – Cronaca di una svolta epocale: l’incontro tra Hermann (il protagonista Henry Arnold) e Clarissa (Salome Kammer), donna amata da sempre, perduta da una vita e finalmente ritrovata. E, per la prima volta, la saga si doppia, si traduce in un’altra lingua, in nome delle solite italiche ragioni di mercato e di fruizione che non si erano neppure poste col primo Heimat, datato 1984 e visto da una piccola frotta di cinefili e poco più, e che non si erano imposte nel secondo che toccò cuori e occhi degli spettatori italiani oltre ogni previsione possibile, lasciando di stucco lo stesso Reitz. Lui che, ultrasettantenne, con invidiabile leggerezza continua i suoi giochi d’equilibrio (che continuano a riuscirgli alla perfezione) tra la grande storia e la piccola storia, la cavalcata generazionale e l’affresco romantico, la saga familiare e la vicenda tutta individuale dei protagonisti e del loro percorso di formazione. Per non dire tra gli odi e le passioni, le paure e gli entusiasmi, le speranze e le illusioni attraverso cui hanno parlato e parlano i tedeschi ma anche gli occidentali tutti.
Continua e gioca con questa terza puntata (persino più smilza delle precedenti con le sue scarse 12 ore) sempre navigando intorno al cuore e al senso di “Heimat”, parola che tradursi non può se non attraverso fraseggi e circumnavigazioni e che, dunque, all’inizio voleva dire il villaggio della nascita, della famiglia, l’infanzia e l’idea dell’infanzia che ciascuno porta con sé ovunque; e che, poi, strada facendo, nella seconda parte e soprattutto in questa terza, diventa qualcos’altro, perché la Germania, ma anche tutto il mondo, si trasforma, l’idea del villaggio natale cambia, e quel villaggio, quella provincia, nel frattempo, sparisce, tanto che oggi non è neppure più un luogo ma solo una mentalità, vive in tutte le metropoli, un ricordo, a volte una sfida, a volte solo una nostalgia. Che un po’ somiglia a quel senso di perdita vissuta dai tedeschi dell’Est oggi, una volta superata la sbornia della riconquista dell’Occidente. Nostalgia immancabile, d’altra parte, in ogni cronaca-radiografia che voglia farsi anche racconto di un tempo perduto. C’era già, sia pure ben nascosta tra le pieghe delle prime parti, tra il perfetto incastro di dramma e commedia, serio e faceto, pubblico e privato, c’è ben più violentemente in questa terza parte in cui il protagonista Hermann coltiva una latente indecisione e incompiutezza che è il riflesso del disagio dello stesso Edgar Reitz (e non solo) che oggi a casa sua, nella sua Germania, non si sente bene.
Ma la storia che Heimat ci racconta è ancora di tutti e ciascuno può giocare con i suoi pieni e i suoi vuoti (creati ad arte) come vuole. Mentre, in tanto tripudio di storie che si intrecciano a grappolo e di personaggi che si incontrano e si scontrano, si toccano e si lasciano, i pieni e i vuoti vanno, figurativamente, a comporre un’immagine sintetica: quella di una casa dei sogni, ai confini dello Hunsruck, sospesa su tutto che il musicista di successo Hermann vuole come rifugio per sé e per la sua amata ritrovata. Anche se si capisce che le immagini sintetiche ed emblematiche (per necessità) servono a un disegno così ampio ma non sono amatissime da Reitz, sono funzioni e nulla più. E come potrebbe essere diversamente per l’autore di una saga che se oggi dura “appena” 11 ore, nella prima parte era lunga 931 minuti e nella seconda ben 1532? Come potrebbe per lui che si confessa ispirato da sempre da Marcel Proust e che del suo film di una vita ha fatto un cinematografico e assolutamente esportabile luogo di desiderio e di nostalgia, di bisogni e di fughe?
di Silvia Di Paola