Mai il canadese David Cronenberg si era spinto tanto avanti nella ricerca del consenso e nell’enfasi della trama. Forse, il quasi flop al botteghino del suo precedente lungometraggio, Spider, uno dei suoi film più belli con Inseparabili, lo ha convinto che era meglio rimescolare i suoi temi di sempre con un marcato senso dell’entertainment. A History of Violence, in effetti, può essere apprezzato anche dall’utente cinematografico che non conosce le precedenti opere del regista, come un thriller ben interpretato, incalzante, con risvolti da cartoon e sopra le righe (tratto dal romanzo a fumetti di John Wagner e Vince Locke). Gli esegeti e gli appassionati, invece, possono tuffarsi appieno nelle contraddizioni e nello spirito dualistico di un artista che sa utilizzare le sue ossessioni in modo così conforme allo spirito di un’epoca e di un paese. La vivisezione di una famiglia dell’America rurale, l’esplosione di violenze assopite e il disvelamento di vecchie identità paterne e di nuovi comportamenti filiali sono messi in scena con un notevole senso del ritmo. Niente tempi morti, la coazione a ripetere e lo choc coniugale che si riverbera nei rapporti affettivi e sessuali avvengono all’interno di uno spietato meccanismo di precisione narrativo.
I rimandi e le metafore soggiacenti sono interpretazioni un filino oziose solo per gli accaniti “cronenberghiani”, che non possono non accorgersi che l’autore sia in una fase di stallo, costretto a rispondere al supposto scandalo suscitato alla prima del film sulla Croisette con verosimili dichiarazioni di natura morale o politica (il governo Bush, la facilità di disporre di armi domestiche negli States, l’inferno e le menzogne familiari, il privato contro l’ostilità di un mondo dominato da affari sporchi e poteri imperscrutabili). In buona sostanza, il finale di questa epopea pop si deve leggerlo senza costrizioni di sorta: persone nuove mangiano al desco comune, la vita quotidiana prevarrà per ora, ma non è detto che il signor Stall rinunci all’adrenalina di una verità condivisa dalla moglie e dai figli. Dopo novantasei minuti lo sdoppiamento dell’uomo è cessato, dopo una parentesi pulp e iperrealista, dove giganteggia un torvo e cinico William Hurt. La famiglia è salva o meglio lo è mai veramente stata? E Cronenberg si concede il suo film più godibile, fruibile senza tentennamenti o attimi di noia, visivamente splendido, complesso ma al contempo di grande appeal. E anche gli altri attori, a parte Hurt, non sono da meno nei meriti (Viggo Mortensen, mai stato così bravo e il cammeo di Ed Harris è strepitoso).
di Vincenzo Mazzaccaro