C’è una nuova receptionist nell’Hotel Waldhaus. Si chiama Irene, ed è una ragazza a modo, composta, elegante, probabilmente alla sua prima esperienza lontano da casa. Suo compito è quello di sostituire un’altra ragazza scomparsa in circostanze misteriose, e non prenderà solo il suo ruolo, ma anche la sua stanza e i suoi occhiali da vista con caratteristica montatura rossa. La conoscenza con la collega Petra sarà inizialmente un diversivo per combattere la solitudine e l’isolamento di quel luogo; insieme attraverseranno il bosco per andare alla discoteca locale, dove Irene incontrerà Erik. Petra è solita anche organizzare mini-festini nelle stanze interrate riservate agli impiegati. Ma Irene è pura, incontaminata, diversa; quel crocefisso con pietre preziose diventa un faro nella notte, talmente appetibile da dover essere trafugato. Sarà la fine del rapporto tra Irene e Petra poiché la ragazza è la prima sospettata del furto. Il tempo passa e la ragazza sente crescere la minaccia dell’Hotel, dall’interno con il buio dei suoi corridoi e la freddezza dei suoi inquilini, dall’esterno con l’inquietante bosco che lo circonda.
Hotel è il terzo film della regista austriaca Jessica Hausner, passato a Cannes l’anno scorso, classificabile per comodità come thriller ma totalmente anticonvenzionale in tal senso. I canoni hollywoodiani vorrebbero che il soggetto di indagine sia la ragazza scomparsa, e invece qui lo diventa la stessa Irene che, intenta a cercarla, scopre se stessa e quell’intricata, fitta e oscura boscaglia che è la vita lontano dalle sicurezze del focolare domestico. Per rappresentare il viaggio introspettivo della protagonista, la Hausner si affida all’universo mitologico della sua terra, l’Austria, piena di credenze popolari e divinità dei boschi, comprensibile in un paese dove la foresta copre il 47% del territorio. La “strega del bosco” è l’unica attrattiva delle terre intorno al Waldhaus Hotel e agli occhi di Irene assume una valenza duale: terrorizzante ma affascinante al contempo, proprio come il sesso provato nella macchina di Erik. Per il paganesimo le streghe simboleggiavano elementi quali sensualità, individualità e una disobbedienza che distrugge, che corrompe. In questo senso Irene è un po’ strega e un po’ “cappuccetto rosso”, vittima di un bosco che la inghiottirà. Ma se Hans Blumenberg teorizzava che “Il naufragio è una specie di legittima conseguenza della navigazione”, l’ingresso di Irene nel bosco è il compimento di un atto disgregativo che mette in discussione la sua stessa individualità in modo necessario, inevitabile. Con il finale si rimane perplessi, ma dietro la macchina da presa c’è una donna, peraltro cresciuta in solitudine. C’era da aspettarsi un thriller fuori dagli schemi.
di Alessio Sperati