“…All’improvviso un Coniglio Bianco dagli occhi rosa le passò vicino correndo”: se provassimo a catapultare questo breve passo (tratto dal celebre Alice nel paese delle meravigliedi Lewis Carroll) nell’America degli anni Cinquanta con protagonisti due bambini annoiati e soli, probabilmente ci troveremmo davanti un gatto nero alto un metro e ottanta, con un magico cappello ricolmo di magnifiche diavolerie, come per la borsa di Mary Poppins. Il gatto o meglio The Cat in the Hat è soltanto un altro dei numerosi personaggi racchiusi nella galleria del narratore di Spingfield, Theodore S. Giesel, al secolo Dr.Seuss: dalla sua penna nasce su commissione un volumetto di circa duecentoventi parole, che non trova diffusione nelle scuole ma riscuote un grande successo tra le famiglie; indirizzato ai più piccoli, con illustrazioni colorate, diviene un utile strumento di lettura per affrontare argomenti rilevanti e difficili da spiegare ad un pubblico giovanile. Le avventure narrate ruotano tutte attorno ad un infinità di buffi protagonisti, alle prese con problemi di vario genere: la mancata tolleranza degli Snicci, esseri minuscoli divisi in caste, individuabili per mezzo di stelle verdi sul petto, il rispetto per la diversità in tutte le sue forme, rappresentata dall’elefante Ortone e dalla città dei piccolissimi, alle quali si aggiungono serie questioni come la corsa agli armamenti e la conquista della pace. L’autore considera i bambini persone, non importa quanto piccole e vede in loro la stessa problematicità degli adulti, somministrata però con qualche accorgimento assai più piacevole e divertente allo scopo di conservarne meglio il valore. Con questo film per la seconda volta, dopo l’esperienza di Ron Howard con Il Grinch cioè How the Grinch stole the Christmas, il produttore Brian Grazer trattiene un’altra delle mitiche figure dell’universo irriverente del Dr.Seuss. La pellicola si apre con il marchio Dreamworks, a disegni animati dai tratti elementari del libro e poi, si specchia nella presentazione di Anville, città entro la quale si svolge la vicenda, con una voce fuoricampo scandita dalle parole in filastrocca. Il territorio de Il Gatto si trova a metà fra i giocattoli di qualche tempo fa (si pensi alle costruzioni Lego o Fabuland) e i tocchi pastello dagli effetti sgargianti della Suburbia di Edward Mani di forbice con le case tutte uguali e in aggiunta macchine e utensili che ricalcano lo stile iperrealista.
Conrad, un tipo vivace, pieno di energia e ricco da entusiasmo che il più delle volte non riesce a domare, si confronta con il suo contraltare, la sorella Sally, dolcissima ma eccessivamente ordinata e autoritaria biondina, redarguita da un pesce con le veci da grillo parlante; il compito del magico felino sarà quello di insegnar loro a divertirsi con saggezza, dando libero sfogo alla fantasia. Nonostante un avvio non proprio deciso, il film, diretto dall’ex-scenografo Bo Welch, è interessante grazie alle felici intuizioni indicate dal narratore nel testo originale e dai tocchi surreali, apportati per questo adattamento: il confine fra la realtà in coppia con la normalità, e il diluente spazio onirico ricco di trovate (i sentieri come scivoli da luna park e gli uccelli dal dorso a forma di libro) del mondo capovolto, offrono momenti di grande suggestione. Il pianeta strambo e apparentemente confusionario del Gatto è rinchiuso, con tanto di lucchetto a forma di granchio, in una scatola che non si deve aprire: come un moderno vaso di Pandora infatti, una volta avuto accesso nell’altra dimensione, accade di tutto. La prova offerta dagli interpreti tra i quali spiccano su tutti i formidabili Dakota Fanning e Spencer Breslin, si potrebbe misurare nell’opaca figurina di Alec Baldwin, nella convincente mamma-donna a lavoro, Kelly Preston, e nella difficile messa in scena di Mike Myers. Sarebbe del tutto ingiusto fare il classico paragone con Jim Grinch Carrey: qui l’attore nascosto sotto una montagna di peli, si muove in funzione di una scenografia creata appositamente per lui e lo aiutano nell’ardua operazione ingegnosi apparecchi, quali lo Svagometro, (strumento per misurare il livello di adattabilità al divertimento), l’automobile S.L.O.W. (simile alle macchine indimenticabili della serie animata Wacky Race) e due aiutanti. Cosi, probabilmente presi a prestito e ricuciti dalle vesti di Tweedledum e Tweedledee di Alice nello specchio (Pinco Panco e Panco Pinco nella versione Disney). I numeri di Myers a tratti funzionano a tratti stancano: tra le scene più curiose citiamo, il camuffamento da cuoco folle “di quelli che preparano i piatti in Tv e il suo ridicolo aiutante, un tipo con un maglione orribile che fa sempre domande inutili”, con se stesso spettatore, comodamente in poltrona (situazione del genere ci riportano ai tempi dei travolgenti Muppett di Jim Henson). L’opera riesce meno della critica al consumismo adottata dall’ex Cunningham ne Il Grinch ma per un debutto dietro la macchina da presa, Welch dimostra grandi capacità nel saper gestire gli attori e nel contempo utilizza tutta una serie di indispensabili espedienti, assorbiti dalle esperienze con grandi registi.
di Ilario Pieri