Il film di Jim Sheridan, diciamo la verità, sorprende e in positivo, pur non essendo del tutto riuscito. Ci si aspetta un j’accuse poetico-politico sugli Stati Uniti, venato di lirismo, pathos e foga espressiva e invece ci troviamo di fronte a un delicato apologo religioso sulla cognizione del dolore e la visione come esperienza religiosa, mistica della realtà minuta, dove comunque si cela il divino. L’incipit della pellicola parrebbe confermare la pista dell’ apologo politico (che c’ è, ma rimane sullo sfondo, senza invadenza): buio in sala, bagliori sfocati, quasi alla Brackhage, che si tramutano in una bandiera U.S.A., anch’essa sfocata e quasi bruciata dal controluce, quindi un posto di frontiera minaccioso e incombente, vagamente kafkiano, tra gli Stati Uniti e un altro paese (il resto del mondo?), dove una famiglia irlandese si sta trasferendo per lavoro. Siamo alle porte di un altro mondo, ma il confine non è solo l’accesso fortificato all’Impero americano e alle sue contraddizioni, bensì, metaforicamente, l’entrata in un luogo infero, un vero e proprio regno dei morti dove recuperare la figura di un figlio e di fratellino morto da poco. Non c’è niente di macabro in questo tragitto, anzi. È proprio l’ attraversamento del dolore, l’elaborazione del lutto a farsi presupposto necessario della visione, della capacità di aprire gli occhi sul mondo.
In questa interpretazione il buio iniziale rappresenterebbe lo stato di catatonia dei quattro protagonisti, gelati nel proprio dolore, quindi incapaci tanto di comunicare tra loro, quanto di relazionarsi con l’esterno, di coglierne la bellezza divina, neanche troppo nascosta, evidente a chi voglia davvero notarla. Il loro viaggio nell’oltretomba (New York, oramai il luogo eponimo di un mondo metamorfico e contraddittorio) è sia un modo di ritrovare l’ altro, il fantasma, sia di ritrovare se stessi tramite l’altro. Johnny, Sarah, Christy e Ariel (soprattutto Johnny) superano la glaciazione nel lutto nel ritrovamento dell’immagine perduta, nel ricordo. È la ricerca continua, da parte del cinema, di un rapporto animistico, religioso con i segni, caricati di un significato, proprio e misterioso. La scommessa è di quelle rischiose e Jim Sheridan lo sa. Anche perché il nostro, oltre a voler mostrare il miracolo della visione in sé stessa, come scoperta del trascendente nella realtà nuda, mette in scena anche un miracolo vero e proprio (anche se con molta naturalezza e discrezione) e qui il discorso si fa più complesso. Infatti se è perfettamente naturale che il cinema, nella sua essenza fantasmatica, sappia rendere perfettamente il ricordo, il ricordo dei morti in particolare, l’assenza dell’ immagine nel momento stesso in cui venga percepita, ben più difficile diventa rendere in un film un prodigio, dato che il cinema è pur sempre arte della riproduzione perfetta e lenticolare della realtà (di esempi riusciti di miracoli al cinema mi vengono in mente solo La fontana della vergine, La vita è meravigliosa e Il Vangelo secondo Matteo assolutamente privo di prodigi, ma dove la stessa parola di Cristo e i set di Matera diventano intrinsecamente trascendente).
E infatti il gioco funziona a metà. La crudezza documentaria e naturalistica di impronta anglosassone consente a Jim Sheridan di rendere la bellezza spoglia del reale, dello squallore delle periferie di New York, di caricarla di valenze metafisiche senza aggiunte estetizzanti o simbolismi elegiaci (che appesantivano non poco, ad esempio, The Million Dollar Hotel). È la lezione di Rossellini e Bresson, del loro ascetismo visuale, che si nota in sottofondo, aiutata dalla splendida intensità del cast al gran completo. Purtroppo questo lavoro formale sull’invisibilità registica, sulla presenza divina nelle cose minute e sulla memoria dei morti viene in parte vanificato da una sceneggiatura ridondante, troppo a tesi, incline alla metafora e al dialogo didascalico (la bambina dotata di telecamera digitale, quindi di sguardo vergine stupito, il pittore colored morente, i dialoghi tra Matteo e Johnny). E il miracolo in sottofinale, in un film che vorrebbe mostrare la vita stessa come prodigio, appare comunque una forzatura retorica. Insomma il film rimane sincero, anche affascinante, ma schizofrenico, diviso tra asciuttezza registica e ridondanza di scrittura e del piano narrativo. E l’apologo sull’essenza metafisica di ciò che vediamo rimane al livello un pochino più epidermico dell’evocazione commossa e del lirismo. Preghiera e omaggio, dunque, più che teologia e mistica.
di Francesco Rosetti