Inutile simulare stupore od insoddisfazione. David Lynch non si identificherà mai con il cinema inteso nella forma più classica e tradizionale. Fuori da qualsiasi imposizione di struttura narrativa e rappresentativa, il regista di Dune, Mulholland Drive e Twin Peaks, esula da una sceneggiatura razionale e logica, trasformando Inland Empire in una sorta di sfida intellettuale tra le sue intenzioni criptiche e la capacità di lettura e decodificazione dello spettatore. Trascorsa la prima mezz’ora in cui tutto sembra immerso in una sorta di normalità narrativa ( ci troviamo su di un set cinematografico per il remake di un film “maledetto” a causa del misterioso assassinio dei due protagonisti prima della fine delle riprese), scatta la trappola visionaria in cui dovrebbe essere celato, o forse no, il significato dell’intera vicenda. In realtà Lynch non è mai stato tanto uguale a se stesso come in questo caso. Attraverso un gioco d’immagini girate interamente al digitale sfumate nei toni del grigio ( il nero è il suo colore preferito) ed intersecate le une con le altre senza un’ apparente consecutio logica, il regista instaura un dialogo con il pubblico attraverso suoni, atmosfere e musiche dall’intensa forza trainante. In realtà il modo migliore per affrontare questa pura esperienza visiva sarebbe quella di lasciarsi andare, vivere il percorso visivo senza imporre ad esso alcuna struttura riconoscibile. Solo in questo modo, assumendo il ruolo di puro ed indifeso spettatore, si comincia ad intravedere tra la nebbia dei sottintesi e delle rappresentazioni la colonna portante che, comunque, mai può essere definita come storia.
Più che un percorso umano decodificato tramite una struttura tecnica d’inizio, centro e fine, Lynch sceglie di lanciare, con la forza invasiva d’immagini distorte nell’estetica come nel significato, le sue riflessioni sulla macchina cinema. Nello sdoppiamento di una personalità, nella sovrapposizione e nello scambio involontario che avviene tra attrice e personaggio si compie la drammatica perdita di coscienza della propria vita. Come in una creazione di universi paralleli, la realtà rappresentata e quella rappresentabile si intersecano e si allontanano creando un incubo cosciente e vigile. A questo punto verrebbe da chiedere se la vita sia più cinematografica del cinema stesso, ma il fulcro di tutto non si trova nemmeno in questo quesito. Piuttosto si continua in una speculazione mentale ed intellettiva capace di catturare e sedurre per più di tre ore e mezzo, nonostante una inevitabile costernazione. Mentre Laura Dern si perde lungo l’andare e venire delle sue due esistenze, o meglio lungo la concretezza di una e la proiezione quasi demoniaca dell’altra agendo inconsapevolmente sull’emotività di una spettatrice tanto coinvolta da riflettere la propria esistenza su quella di un personaggio televisivo, va delineandosi la natura di questo Inland Empire. Il cinema, inteso come luogo di rappresentazione e presa di coscienza, si trasforma in quella terra di mezzo dove i due universi paralleli, realtà e messa in scena, si incontrano attraverso un gioco di porte comunicanti, fuori e dentro una finzione prestabilita. Perché nel momento dell’accensione delle luci in sala, o con l’epilogo finale del film i due emisferi si separano, lasciando le luci della ribalta ad una realtà impegnata a rappresentare se stessa all’infinito.
di Tiziana Morganti