Nato nell’ormai lontano 1957 con I vampiri di Riccardo Freda, il cinema horror italiano ha attraversato il suo momento migliore tra gli anni Sessanta e Settanta, grazie a registi quali Mario Bava, Antonio Margheriti, Lucio Fulci, Dario Argento ed il già citato Freda, veri e propri punti di riferimento per i cineasti di tutto il mondo. A parte le rarissime eccezioni di ottimi prodotti quali Deliria di Michele Soavi e i due Demoni di Lamberto Bava, l’horror ‘made in Italy’ è stato rappresentato, tra la seconda metà degli anni Ottanta e l’inizio del decennio scorso, per lo più da mediocri prodotti girati con poca fantasia ed ancor meno soldi, diversi dei quali hanno avuto vita breve e difficile (basterebbe citare il grottesco, apocrifo Terminator 2-Shocking dark di Bruno Mattei). Ciò ha probabilmente stimolato i produttori ad orientarsi verso tutt’altra tipologia di pellicole, contribuendo alla scomparsa del cinema della paura e, di conseguenza, di tutto quello di genere tricolore, che ha finito per rigenerarsi, compresi i suoi autori, nel poco cinematograficamente interessante, ma più economicamente gratificante, mondo delle fiction televisive. Negli ultimi tempi, a parte Argento, che non ha mai abbandonato il genere, tentativi di ritorno agli orrori su celluloide sono stati messi in atto da Alex Infascelli e dai Manetti Bros., ma se il primo, con Almost blue, ha realizzato un thriller volto più al cinema d’autore che all’horror nel senso stretto, i secondi, con Zora la vampira, hanno finito per accontentarsi di una gradevole rilettura ironica, tinta di hip-hop, del mito di Dracula. Alla fine, probabilmente, il più sincero omaggio agli squartamenti che furono può essere considerato il disastroso Cattive inclinazioni di Pierfrancesco Campanella, dello scorso anno, ma ora il noto effettista Sergio Stivaletti, già regista nel 1997 di M.d.c.-Maschera di cera, rilettura cinematografica del famoso romanzo di Gaston Leroux, portato in precedenza sullo schermo da Michael Curtiz e André De Toth, torna nuovamente dietro la macchina da presa con I tre volti del terrore, il quale, a partire dal titolo, che si riferisce contemporaneamente a I tre volti della paura di Mario Bava e Le cinque chiavi del terrore di Freddie Francis, si propone come operazione nostalgica. Scritto dallo stesso Stivaletti con la collaborazione di Antonio Tentori (Un gatto nel cervello), il film prende spunto proprio dal capolavoro di Francis, mostrandoci tre persone che, a bordo di un treno, fanno conoscenza con il dottor Peter Price (unione tra Peter Cushing e Vincent Price), ipnotizzatore in possesso di una magica sfera che li trasporterà all’interno di tre incubi terrificanti, tra licantropi, chirurgia plastica e laghi maledetti.
Nonostante il titolo, la nuova fatica di Stivaletti non si limita ad omaggiare soltanto i film dell’orrore di quarant’anni fa, infatti, tra citazioni argentiane, apparizioni amichevoli di Lamberto Bava e Claudio Simonetti (che stavolta non cura le musiche, sostituito dal pur valido Maurizio Abeni), rimandi ai due succitati Demoni, ed un personaggio che si chiama Fisher, proprio come il Terence regista di Dracula il vampiro e La maschera di Frankenstein, sembra voler ricostruire l’evoluzione del cinema della paura partendo dalla metà degli anni Sessanta, accostando vecchie e nuove strategie, sia narrative che tecniche. Possiamo quindi notare che, se il primo episodio L’anello della luna, pur introducendo creature e trasformazioni che ricordano L’ululato di Joe Dante, rilegge il mito dell'”uomo lupo” basandosi, proprio come l’horror vecchia maniera, su molta attesa accompagnata da esecuzioni al piano, il secondo Dr. Lifting ci rimanda alle tecniche del passato tramite il grande uso di soggettive della vittima, le quali consentono di relegare la truculenza ‘off-screen’, per sfociare, alla fine, nell’esagerazione sanguinolenta tipica di Lucio Fulci e di tutto il thrilling all’italiana degli anni Settanta, mentre l’ultimo Il guardiano del lago, sebbene presenti rimandi al mostro di Lochness ed alle animazioni di Ray Harryhausen, omaggia principalmente La zattera, secondo episodio di Creepshow 2 (1987), permeato da un certo moralismo liberatorio, proprio come succedeva nell’America di Ronald Reagan.
Aggiungete quindi una venatura ironica che sembra presa in prestito dagli albi a fumetti Splatter e Mostri, editi tra il 1989 ed il 1991 dalla gloriosa “Acme”, ed otterrete un prodotto godibile che, messo in piedi con invidiabile passione, non annoia quasi mai, e trova il suo maggiore punto di forza negli artigianali effetti speciali, pur non apparendo esente da difetti, riscontrabili principalmente nella recitazione (ad eccezione dell’ottimo Andrea Bruschi, John Phillip Law ed una non disprezzabile Elisabetta Rocchetti), in parte penalizzata dal doppiaggio, e nella fotografia di Fabrizio Bracci, i cui contrasti ed ombre, piatto forte dei vecchi prodotti gotici italiani ed anglosassoni, finiscono per essere “raffreddati” dalla qualità del digitale.
di Francesco Lomuscio