Un ladruncolo da strapazzo che vorrebbe solo entrare nella più terribile delle gang e non sa davvero chi è e, strada facendo, diventa quasi tutto; una gang in cui tutti i membri di nero vestiti e di bombetta muniti sembrano tirati fuori dalle tele di Magritte; una massaia sempre in vestaglia e bigodini che stende frotte di omoni e utilizza la ciabatta come arma contundente; un sarto gay che sembra timido, almeno finché non comincia, da vero maestro del kung fu ad affilare le armi sui cattivoni che lo importunano, un vicolo, il vicolo dei porci, in cui succede di tutto tra oggetti e uomini volanti e tutti sono maestri in qualche modo e oltre ogni apparenza. Ma questi non sono che gli ingredienti apparenti. Poi c’è tutto il resto, il western, l’action movie, il musical dei bei tempi andati, esilaranti duetti a iosa e quintali di passato di cinema di Hong Kong. Ma, soprattutto, in questo Kung Fusion, c’è la mano che mescola. Irrefrenabile e scardinatrice: più che una mano un tritatutto capace di dare forme irresistibili a ciò che sopravvive al suo mix. È Stephen Chow e arriva dritto dritto dai suoi sogni di adolescente. Allora passava da un cinema all’altro, venerava Bruce Lee e, siccome non aveva soldi, studiava arti marziali da autodidatta, si esercitava lungo la via e aveva almeno due priorità: diventare un esperto di arti marziali e, dopo, diventare un attore. Oggi, che finalmente Hollywood si è accorta di lui, dopo il successo inatteso di Shaolin Soccer, e dalla Columbia gli hanno offerto soldi a palate, lui è tornato indietro, certo che questo era il momento per tradurre su schermo la sua ossessione, in qualche modo esorcizzare facendosi supereroe e dio di arti marziale inconsapevole, almeno per gioco.
Insomma ha puntato alto, ha preso tutto quello che gli è stato offerto, è il caso di dirlo, al volo, trascinando in ballo non solo il mitico Yuen Wo Ping (arciammirato in Matrix o ne La Tigre e il Dragone) ma persino quel Leung Siu Lung che fu uno dei “tre dragoni” con Bruce Lee e Jackie Chan e che non si vedeva sugli schermi dagli anni ’80, per non dire dell’ex bond girl Yuen Qiu, precipitata dai lontani anni Settanta. Soprattutto ha colto al volo la tardiva occasione (ma meglio tardi che mai) inventando (con tutti i mezzi necessari) un mondo parallelo tutto costruito, pezzo per pezzo, lacerto per lacerto, strato per strato cumulando genialmente (e cioè disordinando e riordinando con perfetta illogicità) citazioni cinefile e parodie, trash su trash ma con una leggerezza che rende tutto irresistibilmente comico. Di più: un cartoon in forma di film e con personaggi che sembrano cartoni e invece sono fatti di carne e sangue e in mezzo ai quali Chow si fa persino inseguire come Wyle Coyote. Un cult a venire. Tutto vi farà ridere, anche quando non volete e non ne capite la ragione. Tutto a parte i dialetti. Infatti, anche qui (come nel precedente Shaolin Soccer massacrato nella nostra versione) il doppiaggio va dove lo porta il cuore più che la ragione e, nell’italica versione, per rendere le differenze dialettali tra cantonese e mandarino, sceglie alcuni dialetti regionali, il siciliano e il toscano, il napoletano e il romanaccio. E i doppiatori, i due giovani Caterina Guzzanti e Marco Marzocca, vanno, cercando almeno di non scivolare nell’incubo del fuori sincrono. Ma, doppiaggio a parte, se il modo in cui Chow ha ricreato il gioco del calcio vi aveva stregato, questo frullato di generi, trovate demenziali e citazioni parodiche vi renderà del tutto chiaro, e d’un colpo, i legami (intimi, intimissimi) tra questo cinema e il cinema tarantiniano, epigoni inclusi, vi travolgerà. In una risata.
di Silvia Di Paola