Tamara Jekins, fresca di candidatura all’Oscar per la migliore sceneggiatura originale, utilizza la sua innata ironia per affrontare il tema della vecchiaia e della morte quasi come strumento catartico, capace d’imporre una riflessione a cui è impossibile scappare. Il cinema ha affrontato più volte il tema degli anziani. Dal favolistico Coccon, al divertente La casa del sorriso, passando al più intenso e intimista L’eternità e un giorno di Angelopoulos, tutte queste opere affrontano le problematiche da una angolazione strettamente personale e soggettivo, escludendo dalla riflessione il mondo esterno che gravita attorno a un universo di anziani intento a recuperare, gestire o rivivere il tempo a propria disposizione. Da questo punto di vista La famiglia Savage, che Nanni Moretti ha scelto per aprire l’ultima edizione del Festival di Torino, compie un salto in avanti offrendo una visione più ampia e complessa della problematica. Partendo proprio dalla malattia e dall’incombenza dell morte, la Jekins costruisce il ritratto sfaccettato di tre umanità che, nonostante un legame famigliare quasi inesistente, si trovano a dover affrontare una realtà ineluttabile. Se la vecchiaia può portare alla saggezza, la fragilità di un genitore può indurre alla revisione dei sentimenti di una intera vita. E nonostante il rancore provato nei confronti di un padre sentimentalmente inadeguato, l’improvviso senso d’impotenza si somma alla consapevolezza di una imminente e definitiva solitudine pronta a sconvolgere ogni equilibrio.
La famiglia della Jekins non rispetta i canoni classici della tradizione americana. Non vive in una casa con portico, non si riunisce nel giorno del ringraziamento e soprattutto non nasconde livori e insofferenze dietro il candore delle sue persiane. I Savage non si riconoscono come nucleo della stessa stirpe se non nel ricordo di una infanzia difficile da esorcizzare chiusi all’interno di una roccaforte emotiva. Philip Hoffman e Laura Linneytratteggiano le due espressioni di uno stesso abbandono. Messi di fronte all’improvvisa demenza del padre rappresentano negazione e realismo, entrambi veicolati da un sordo e incomprensibile bisogno di perdono. Il ritmo della narrazione segue in modo naturale gli eventi senza alcuna forzatura drammatica. Al capezzale di un padre malato e moribondo si susseguono dolore e ironia, secondo il realistico andamento della vita. Il mutismo e l’assenza mentale del genitore parla per la prima volta con chiarezza. Diventa lo strumento attraverso il quale è possibile decodificare i messaggi allarmanti delle loro vite, riconoscersi e sopportare l’inevitabilità di un passato che non può essere mutato. E alla fine del viaggio l’accettazione della propria provenienza famigliare sembra l’unico elemento da custodire.
di Tiziana Morganti