Questa diciannovesima fatica di Carlo Verdone, cinquant’anni suonati e forse l’unico regista rimasto – assieme a Pieraccioni – che spera sempre, e con modestia, nell’affetto del suo pubblico, dimostra che si può guarire dall’ipocondria depressiva della psicanalisi. Stavolta il “melancomico patata” abbassa le ambizioni recentemente dimostrate affidandosi ad una sceneggiatura (anche di Pasquale Plastino e Francesca Marciano) limata in punta di penna, accorta a non apparire troppo qualunquista nel tratteggiare i personaggi e intelligente nel cercare una comicità che provenga dal gioco tra gli attori, come in una sana pochade, più che dallo scambio di battute o qualche gag. Ciò ha permesso al simpatico attore romano di descrivere con lucidità e pulizia quello strambo universo che gravita attorno all’amore, questo sconosciuto, al solito responsabile di tradimenti, equivoci, battibecchi matrimoniali, colpi di fulmine e riappacificazioni di coppia non sempre inevitabili.
Verdone è bravo nel dirigere gli attori, forse più che se stesso; azzarda due brave protagoniste che non potrebbero essere più diverse (la moglie Laura Morante e la timida inconsapevole cotta per l’amica dell’amico Stefania Rocca); aggira con perizia la facile macchietta; ci mostra una varia umanità intrusiva (sia femminile che maschile) allarmante ed allarmata ma in fin dei conti (auto)consolante; e in un periodo furbo-mucciniano in cui il cinema italiano raschia il fondo del barile per cogliere lo spirito di questi tempi da angosce esistenziali, Verdone sceglie la coraggiosa mezza via di non graffiare a tutti i costi ma analizzare, destrutturare, scavare e provare a ricomporre i brandelli di solitudini under e over “anta” che non cercano altro che affetto e stabilità in forza della chimera di una soluzione a molte domande. Che forse non sarà la comoda e vecchia scappatoia della “teoria dell’istrice” (si sta insieme ma ognuno a casa propria e con i propri spazi), ma almeno evidenzia che è possibile maturare il rapporto di coppia trascinandolo dalle aride secche di un interrogativo verso i placidi lidi della serenità d’animo. Sì, è possibile crescere: anche a cinquant’anni.
di Francesco De Belvis