Rintracciare tra le pieghe della narrazione i particolari che devono aver indotto Almodovar a produrre la seconda regia di Lucrecia Martel non è assolutamente un compito arduo. Dall’oppressione di un senso religioso che condiziona il normale percorso conoscitivo del proprio corpo e delle sue pulsioni, passando attraverso un erotismo sussurrato e castrato fino ad un preponderante senso del peccato, La Nina Santariassume in qualche modo alcune delle caratteristiche che hanno determinato la cinematografia del regista spagnolo, rimanendo comunque priva della forte vitalità che ha reso unica la capacità descrittiva di Almodovar. Dopo aver catturato l’attenzione del pubblico e della critica presentando alla berlinale la sua opera prima La Cienaga, Lucrezia Martel torna dietro la macchina da presa per fotografare una vicenda fatta di voci e di percezione, un percorso volutamente spoglio di qualsiasi sostegno musicale, caratterizzato da una trama che induce alla bellezza espressiva ma che risulta priva di una spinta emotiva in grado di catturare gradualmente l’attenzione.
Pur riconoscendo le qualità di una regia elegante e sofisticata che si esalta nella realizzazioni di primi piani molto stretti e nella descrizione quasi distratta delle ambientazioni, la Martel non riesce ad infondere passione, coinvolgimento ed ironia. All’interno di un decadente hotel termale i suoi personaggi si aggirano silenziosi e taciturni, cercando di rintracciare un equilibrio, una missione che possa dare senso alla propria esistenza. La madre giovane ed attraente con un passato non pienamente realizzato (Mercedes Moran), il dottor Jano (Carlos Belloso) dalla duplice natura (padre di famiglia e molestatore) e le adolescenti Amalia (Maria Alché) e Josefina (Julieta Zylberberg) divise tra una inflessibile educazione cattolica e la curiosità che nasce intorno ai primi giochi sessuali, costituiscono le creature disorientate di un acquario umano all’interno del quale ognuno conduce un percorso parallelo, aprendo piani narrativi diversi che non trovano una comune o individuale chiusura. Se lo sguardo super partes della regista ci grazia da qualsiasi facile giudizio sul peccato e sulla sua precisa determinazione questa stessa totale assenza contribuisce alla realizzazione di una vicenda sterile, incapace di esprimere pienamente una pulsione vitale che rimane relegata nel fondo.
di Tiziana Morganti