Ricordo ancora con quanta gioia andai a vedere per la prima volta al cinema un film di Peter Greenaway. Si trattava dello Zoo di Venere, probabilmernte una delle sue opere migliori, intrigante nella storia e nel metodo narrativo, raffinata e disturbante allo stesso tempo. Da quel giorno nacque la convinzione che mai un film del (sin troppo) geniale regista inglese mi avrebbe in qualche modo potuto annoiare. Quindi di corsa a recuperare I misteri del giardino di Compton House e poi in fervida attesa delle sue successive creazioni, da Giochi nell’acqua al sublime Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (i giochi cromatici applicati alla lingerie di Helen Mirren sono ancora una delle massime vette dell’erotismo). Finché non mi iniziarono a sorgere dei vaghi dubbi dopo L’ultima tempesta, operazione senz’altro affascinante per l’utilizzo delle tecnologie digitali applicate a un ipertesto cinematografico, ma anche per questo molto più simile a una videoinstallazione che a un film vero e proprio. Una strada che Greenaway ha voluto seguire con sempre maggiore convinzione, soprattutto da I racconti del cuscino in poi, fino a raggiungere l’apice in questa mastodontica operazione che per brevità chiameremo semplicemente Tulse Luper.
Piani narrativi che si incrociano, immagini, linee sonore, testi di vario genere che dovrebbero dare un flusso continuo dello sviluppo del racconto, teso a un qualcosa che dovrebbe essere interessante. Dovrebbe. Una considerazione che non deriva però dallo scarso grado di attenzione che si può dare alla vita del signor Tulse Luper, ma più che altro dal fatto che allo stesso creatore del baraccone interessi poco e niente della sorte del suo eroe. La preoccupazione maggiore di Greenaway, infatti, è lo sviluppo di questo ambizioso e confusionario progetto, la cui continua evoluzione e totale indefinibilità non aiuta senz’altro lo sviluppo ragionato di un sentimento di benevolenza nei suoi confronti. Si capisce invece perfettamente quanto enorme sia ormai l’ego di un regista che al cinema ha probabilmente già dato tutto ciò che poteva, mentre sembrerebbe avere ancora molto da dire nell’ambito delle biennali, triennali e quadriennali d’arte, in cui la trilogia di Tulse Luper potrebbe trovare una collocazione ben più consona. Cercare la commistione tra cinema e arte è sempre un’opera meritoria, almeno quanto trovare il giusto confine tra opera filmica e videoarte. Le valigie di Tulse Luper è molto più adatto a una galleria che a una sala cinematografica, lascio quindi a un critico diverso dare giudizi più competenti dei miei su questo concept d’arte contemporanea.
di Alessandro De Simone