Miami, si sa, è terra al confine tra legalità e criminalità. Come il suo ipnotizzante paesaggio incerto ed indeciso tra essere metropoli ed essere palude è segno rappresentativo delle contraddizioni d’America. È protagonista del film, l’anima ora santa ora puttana di questa pellicola. Era scritto nelle stelle che la serie tv sbarcata in America nel lontano settembre 1984 dovesse diventare uno spettacolare movie sotto la regia di Michael Mann, all’epoca produttore del telefilm. Il successo che il pubblicò donò alla serie vincitrice di quattro Emmy e due Golden Globe fu straordinario e direttamente proporzionale alle novità che Miami Vice portò nel mondo dei telefilm. Si trattava di veri e propri microfilm più che di puntate da serial, un po’ come accade oggi con i vari C.S.I. (di cui uno ambientato proprio nella capitale del vizio). Le innovazioni principali erano da ricercarsi nella regia fortemente caratterizzata da un montaggio serrato e nei due protagonisti, i cool boys Sonny e Rico. Il lungometraggio oggi nelle sale rispolvera con buoni ma non eccellenti risultati la serie eretta simbolo del consumismo anni ’80. I due poliziotti vestono abiti firmati, guidano automobili veloci e di lusso, la loro esistenza corre fulminea tra un mojito e la bella di turno.
Una vita al massimo quella consumata da Sonny e Rico, vissuta ai margini della legalità, ora infiltrati tra i peggiori trafficanti di droga ora coinvolti in una sparatoria contro la nuova lega ariana russa, sempre al servizio dell’ordine nonostante i modi rozzi e brutali. I ruoli che furono di Don Johnson e Philip Michael Thomas sono ora affidati ai non meno glamour Colin Farrell e il Premio Oscar Jamie Foxx. Affascinanti e spigolosi si troveranno coinvolti in un colossale traffico di stupefacenti, esperienza dalla quale usciranno leccandosi le ferite. Sonny e Rico non vengono approfonditi come persone, al di là delle rispettive storie d’amore, ma solo come ingranaggi di un meccanismo più grande, il rispetto della legge in cui il fine giustifica i mezzi. Portatori sani di lealtà reciproca e fedeltà alle cause sposate per cui si è costretti alla rinuncia della propria vita più intima e privata incarnano tuttavia lo stereotipo più trito del poliziotto rude ma dal cuore d’oro, con l’aggiunta di quella vena malinconica presente in tutti i film del regista. La regia di Mann è come sempre impeccabile. Le riprese sporche e sgranate, la mancata messa a fuoco, gli stacchi rapidi di montaggio sanno più di documentario che di fiction. D’effetto la fotografia di Dion Beebe, specialmente nell’impiego delle ormai classiche luci blu che animano principalmente le scene più drammatiche di ogni film di Mann, come negli ormai cult Manhuntere Collateral. Innovativo nel genere poliziesco per la forte presenza della regia Miami Vice non riesce ad avvincere lo spettatore per la freddezza formale da cui sembra inghiottito.
di Claudia Lobina