Anche a Palermo le cose possono cambiare. E le cose sono le persone. E le persone sono, ciascuna, un mondo a sé, veri e propri capitoli della storia di una cultura, che possono, proprio per ciò, muoversi, magari come cerchi concentrici, o sfuggirsi a distanza come linee parallele o incrociarsi indissolubilmente come mescolanze. Di certo, liberi da ogni arco e coerenza narrativa. Beppe Cino li avrebbe voluti poetici e onirici, favolistici e trascendenti ogni stereotipo, usato dal cinema (e non solo) per raccontare la Sicilia sino ad oggi. Ma risultano fin troppo liberi e troppo poco incisivi, pronti a disperdersi precipitando nel flusso di una cascata di ingenuità e di macchiette dentro cui tutto si stempera, anche la visionarietà commossa, la favolistica cifra, l’affettuosità del tratteggio dei caratteri. Così non si compie il gridato “Miracolo a Palermo!” del titolo di questo film di Cino in arrivo nelle nostre sale. Non si compie nonostante tutto. Nonostante l’immagine del protagonista ragazzo che butta in un cassonetto la sua pistola rifiutando la vendetta e una filosofia di morte, nonostante l’immagine di una madre umiliata che da sola combatte contro tutto, nonostante l’immagine di una purezza avvolgente e resistente fissata nell’amore per la giovane ragazzina, nonostante l’immagine di un futuro possibile per quella tragica piccola frotta di umanità affaccendata nel quotidiano esercizio di sopravvivenza e nonostante i tanti volti (ben scelti) di un film in cui a contare sono tutti e nessuno.
Da un viscido e patetico (ed efficace) Tony Sperandeo a Luigi Maria Burruano troppo abbandonato a se stesso, da una dimessa Maria Grazia Cucinotta (che qui finalmente convince) a un tristissimo Vincent Schiavelli, siciliano venuto da lontano, un po’ poeta, un po’ buffone, e sino al piccolo protagonista Michele Lucchese, il Totò della storia. È lui che tutto il giorno corre, dalla discarica al bazar, dai vicoli dove furfanteggia alla friggitoria dove sogna l’amore, sino al mare, alla sera, alla notte, al sangue. È lui che unisce e sintetizza la gioia primitiva e il disagio quotidiano di una umanità di piccoli boss e di killer senza scrupoli, di ricettatori da quattro soldi e di ladruncoli paralitici, di morti di fame e di clown, tra note di bande paesane che si rincorrono e luminarie che annunciano la festa di un santo possibile. È lui che vive per tutti e forse, alla fine, ce la farà a salvarsi, anche perché il regista si ostina a ripeterci che una salvezza è possibile. Gli crediamo, certo, e con tutto il cuore, ma è anche (purtroppo) vero che proprio dai film partoriti dalle migliori intenzioni una salvezza non c’è.
di Silvia Di Paola