Immaginate una Parigi bohemien, una città preda di forti e travolgenti impulsi vitali, trasformata nel luogo dell’eccesso e della creatività. Sognate un luogo che fu palcoscenico di talenti non sempre compresi, di pittori come Picasso, Rivera, Stein, Cocteau, Soutine ed Utrillo che fecero dell’arte la loro unica ragione di vita. E poi, per finire, osservate un uomo, uno solo, che attraversa quelle stesse strade con la leggerezza e la sbadataggine della sua passione. Quell’essere barcollante, abituato a deridere se stesso e gli altri, è Modigliani e questa è la sua storia. Lo scozzese Mick Davis, dopo aver convissuto per molti anni con l’ossessione ed il sogno di portare sullo schermo le vicende che caratterizzarono la breve vita dell’artista italiano, è riuscito nel suo intento realizzando una pellicola vicina come non mai all’espressione pittorica più vera e diretta. Dalla costruzione di una città che fedelmente si veste dei colori utilizzati da Modigliani nei suoi quadri, passando per il volto incredibilmente evocativo di Elsa Zylberstein a cui è affidato il non semplice compito di interpretare Jeanna, musa e compagna di Modigliani, fino ad arrivare ad una colonna sonora curata nel particolare (indimenticabile l’Ave Maria rivisitata in chiave moderna con influssi rock ed etnici) tutto sembra evocare la potenza stessa della creazione artistica, il flusso emotivo e visivo in preda al quale è impossibile arrestarsi se non ad opera terminata.
Certo non manca un’eccessiva dose di enfasi che è possibile rintracciare in alcuni gesti fin troppo plateali compiuti da Andy Garcia e nell’insistenza di una negazione volontaria attraverso l’utilizzo di droghe ed alcool. Elmenti che potrebbero apparire volutamente romanzati in modo eccessivo (infatti molte sono le incognite che cartterizzano la breve vita di Modigliani), ma che sono assolutamente inerenti ad una vicenda che narra un’immortalità nata dalla distruzione quanto dal talento. Dunque Mick Davis scopre e ricerca particolari per costruire un film probabilmente non perfetto e che potrà suscitare anche perplessità e dubbi, ma comunque capace di mostrare elementi non privi d’interesse. Inoltre, nonostante la sua inesperienza in fatto di direzione, il regista, al suo secondo lungometraggio, mostra già di saper utilizzare e gestire il talento di Garcia e la grande sensibilità della Zylberstein per ottenere la realizzazione della sua visione cinematografica e non pecca certo di superbia evitando di affidarsi a degli esperti del settore. Tra tutte le collaborazione strette per portare a termine il suo I colori dell’anima, Mick Davis ricorda con particolare piacere l’esperienza vissuta con gli italiani Luigi Marchione ed Enzo Folletta, i due scenografi a cui si deve il sogno incredibilmente concreto d’inseguire le vicissitudini di un vero amore (sia per l’arte che per una donna) lungo le vie di una Montparnasse rivitalizzata dalla fine della grande guerra.
di Tiziana Morganti