Il 5 settembre 1972, all’alba, scatta il blitz all’interno del villaggio olimpico di Furstenfeldbruck, alla periferia di Monaco, dove 11 atleti israeliani vengono sequestrati da un commando di fedayin. Il gruppo, che diventerà tragicamente celebre con il nome di “Settembre Nero”, aveva organizzato questo gesto mediaticamente clamoroso per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla causa palestinese. Ventuno ore dopo, il sanguinoso epilogo sulla pista dell’aeroporto si consuma in diretta di fronte a migliaia di telecamere: moriranno tutti gli ostaggi, cinque sequestratori e un poliziotto tedesco. Lasciando dietro di sé una scia di sangue e un desiderio di vendetta impossibili da cancellare. Sono queste tremende immagini – che rimbalzano da un capo all’altro del pianeta e vengono seguite con rabbia, soddisfazione o sgomento a seconda dei casi – a tornare come un incubo ossessivo nella mente dell’ex agente del Mossad, il servizio segreto israeliano, Avner (Eric Bana). Un uomo che, nel momento in cui sembra perfettamente realizzato e prossimo a diventare padre, è chiamato dalla Storia a riaprire una ferita che il suo popolo, pena la sua stessa sopravvivenza, non può lasciare aperta. E a fare i conti con la propria identità di ebreo e con valori per lui fondamentali come quelli di patria, casa e famiglia. Termini che, non a caso, ritorneranno come un mantra a scandire la missione segreta, nome in codice “operazione Ira di Dio”, di cui gli è stato assegnato il comando. Insieme ad altri quattro compagni, tra cui nessun vero ‘professionista’ dell’intelligence, il suo compito è scovare ed eliminare i sopravvissuti del Settembre Nero nascosti in Europa. Con qualsiasi mezzo, a qualsiasi prezzo e senza nessuno scrupolo.
Ma proprio la black list con i nominativi dei terroristi, che gli viene consegnata con la benedizione del primo ministro israeliano Golda Meir, è destinata a creare i primi turbamenti all’interno della squadra: come controllare l’attendibilità delle informazioni ricevute e, soprattutto, quanto oltre ci si può spingere senza che si confondano i ruoli di vittima e carnefice? Interrogativi con cui ognuno di loro sarà costretto giorno per giorno a misurarsi, senza trovare una risposta comune. Tra Francoforte, Ginevra, Roma, Cipro, Parigi, Atene, Amsterdam e Beirut si consuma così un’escalation di violenza e di sangue. «Siamo anime gentili con mani da macellaio», dirà uno dei personaggi più ambigui del film ad Avner durante un banchetto conviviale. E questo è l’altro aspetto che colpisce di Munich: la quotidianità dell’orrore, quella “banalità del Male” (e per ben due volte viene rievocato lo spettro di Eichmann) così ben descritta da Hannah Arendt. Perché altro non sono gli omicidi pianificati al tavolo da cucina, o i persecutori costretti dagli eventi a mischiarsi con coloro che sono diventati perseguitati, scambiandosi ruoli e punti di vista poco prima di ucciderli. «Noi siamo al crocevia di segreti, trame e vendette», è l’autoassoluzione del “contatto” francese che pilota (ma forse è a sua volta pilotato) le spedizioni sanguinarie del team di Avner. Che presto finirà, a sua volta, per trasformarsi da cacciatore in preda di altri Servizi, segreti o deviati. Mai prima d’ora e in modo tanto assoluto in un film di Spielberg l’orrore e l’amore viaggiano intrecciati. Così come è impercettibile la sottile linea rossa – che qui è una scia di sangue che si confonde con l’orizzonte – che separa giustizia e ingiustizia, patriottismo e terrorismo, colpa e pietas, davanti agli occhi dell’umanità.
di Beatrice Nencha