Dietro un grande nome della storia si nasconde la figura un narratore, di colui senza il quale quella storia non sarebbe mai stata narrata. Molti, Martin Scorsese compreso, conoscevano Howard Hughes come un anziano recluso all’ultimo piano di un hotel di lusso, tanto ricco quanto folle. Per Leonardo Di Caprio, avviato ormai non solo alla carriera recitativa ma anche in quella produttiva, avere tra le mani la biografia di una personalità così sfaccettata, è stata una vera ispirazione. Nato nel 1905 a Houston, Howard Hughes era l’unico figlio di un petroliere e di una ricca ereditiera di Dallas. A 18 anni potè disporre di una fortuna pari a un milione di dollari, che impiegò nelle sue due passioni, l’aviazione e il cinema. Il suo primo film, Angeli dell’Inferno, per realizzare il quale comprò anche una grande linea aerea, gli costò 3,8 milioni di dollari, un vero record, ancora più rilevante per un’America in ginocchio dopo il crollo della borsa del ’29. Se Hughes fosse morto a bordo di uno dei suoi avveniristici velivoli, forse anche la sua figura avrebbe avuto un diverso trattamento. Oggi Martin Scorsese rende omaggio ad un uomo che ha saputo rompere i cardini di un sistema troppo retrogrado per durare, e per farlo ha modo di osannare l’epoca d’oro del suo mondo di celluloide, l’età di Katharine Hepburn e Ava Gardner, di Errol Flynn e Bette Davis.
Tra le imponenti scenografie di Dante Ferretti che partecipano alla ricostruzione di un’epoca c’è il mitico club “The Coconut Grove” di Hollywood, che Hughes ha frequentato per vent’anni, completo di ballerine volteggianti e di un arredamento in stile marocchino con alte palme provenienti dal set de Il figlio dello sceicco. Alle odierne tecniche digitali il compito di rappresentare le imprese più azzardate della vita dello spericolato aviatore, tra cui il volo inaugurale del mastodontico Hercules. Il prologo adempie al suo ruolo introduttivo anticipando quella che sarà la ragione del disturbo ossessivo-compulsivo del protagonista e la sua necessità di elevarsi al di sopra delle mediocrità di un mondo troppo lento per stargli dietro. I tagli di Thelma Schoonmaker (collaboratrice di Scorsese dai tempi di Toro scatenato) danno al film un respiro epico, forse troppo dilatato nei suoi 169 minuti di durata. La sceneggiatura di John Logan tratteggia l’ascesa e il consolidamento di un impero, condensando un ventennio negli eventi salienti che lo hanno reso unico ed irripetibile. In effetti allo spettatore viene risparmiato lo spiacevole epilogo di solitudine e malattia che ha caratterizzato gli ultimi anni di vita del miliardario.
Le ragioni di una mancata eccellenza nell’opera vanno ricercate nelle scelte narrative, non sempre condivisibili. Ci chiediamo in particolare, vista la necessità di porre l’accento sulla lenta e progressiva degradazione psichica del protagonista come sarebbe stata la sceneggiatura se affidata alla mano del visionario e geniale Charlie Kaufman, viste le tante attinenze con il film Confessioni di una mente pericolosa, cui The Aviator fa in più tratti riferimento. Se Scorsese ne ha tratto ispirazione anche per i diversi impieghi di filtri di colore, a seconda del decennio preso in considerazione, John Logan non è abbastanza introspettivo e creativo come Kaufman per fornire al regista le armi per una giusta rappresentazione visiva delle ossessioni del suo protagonista. Il film non si chiude come dovrebbe poiché il dualismo mente/corpo che lo pervade in tutto il suo svolgimento, rimane solamente sottinteso in fase di chiusura: il corpo governato da leggi meccaniche subisce un lento e progressivo logorio, mentre l’anima libera ed immortale continua a viaggiare su binari indipendenti fornendo lucide visioni di un futuro possibile. La bellezza della rappresentazione è nulla al confronto del potere immaginativo dell’intelletto: su tale riflessione il film The Aviator finisce per precipitare nella sua compassata perfezione stilistica come un corpo bellissimo privato della sua anima immortale.
di Alessio Sperati