Da tempo si parla di digitale, di video on-demand, di film su Internet, ma il mondo dell’immagine non si rivoluziona solo nei metodi di realizzazione e fruizione, esso cambia anche nei contenuti, nelle forme, nei generi. Quando l’horror a stelle e strisce anelava nella metà degli anni ’90 una trasfusione di idee per riprendere vigore e ritornare a ‘mettere paura’, in estremo Oriente stavano prendendo forma quelle tendenze, mode e qualità espressive, poi condensate nel lavoro di Hideo Nakata. Ambienti chiaroscurati e hitchcockiane sfumature di nero, suoni innaturali, forme demoniache come libera espressione/interpretazione immaginativa dell’incubo. È incredibile pensare a quanto i tratti espressionistici tedeschi degli anni ’20 siano adeguati e perfettamente applicabili ancora oggi nella concezione dell’immagine in un genere che è rimasto fondamentalmente identico nelle forme, ma non nei contenuti. Per capire come si sia arrivati a The Ring e a tutti i suoi derivati (The Call – Non rispondere se non lo aveste capito è tra questi), si deve pensare all’uso e consumo che si è fatto del genere horror nel corso degli anni. Quando il “fantasma” si è trasformato da psiche in etica sociale, quando il terrore è divenuto più esterno che interno, quando l’essere umano è tornato a temere l’altro, l’alterità, il diverso da sé e non se stesso come la società del benessere lo aveva portato a fare, ecco che il consumismo antonioniano di Zabriskie Point diventa esso stesso “fantasma”, espressione demoniaca di un progresso fagocitante, di quella stessa “dickiana” tecnologia disumanizzante che ha influenzato trasversalmente tutti i generi della cinematografia. Se le inquietudini sociali degli anni ’60 prendevano la forma degli zombie di Romero, proiezioni crepuscolari di una società ridotta ai puri istinti dal consumismo, David Cronenberg ha reso orrore anche lo strumento stesso del progresso, il suo simbolo più esclusivo, l’elettrodomestico: una televisione (Videodrome) o una console videoludica (eXistenZ).
L’horror transita dunque da una più aperta critica del sociale, a una sorta di tecno-terrore, dove una qualche entità ci osserva e ci studia quotidianamente, ci spia dal nostro televisore, ci ascolta e ci localizza grazie al nostro cellulare e avvolgendo tutti i sensi elude le nostre difese. Anche lo spettatore più incauto si è reso conto che la tendenza, di cui l’estremo Oriente si fa portavoce, è quella di ritenere l’elettrodomestico il nostro maggiore nemico, se a questo aggiungiamo poi alcuni tratti stilistici quali la sublime concertazione di immagine e sonoro, di chiaro e scuro, di montaggio digitale e analogico, oltre ad elementi quali una diversa e soprannaturale concezione dell’elemento acquatico, ecco che possiamo dire di ritenerci testimoni (in)consapevoli di un battesimo, quello di un sottogenere cinematografico. Stilisticamente The Call esce un po’ da quella dicotomia presente in The Ring che alternava all’ambientazione metropolitana uno sviluppo rurale dell’indagine sulle misteriose morti, c’era cioè l’ingresso in un mondo soprannaturale e selvaggio, il mondo di Sadako, ritenuto diverso e paranormale anche ad un primo sguardo. The Call non esce dalla metropoli, ma scruta i suoi “mali” dall’interno. Il suo regista Takashi Miike è stato già notato da Time Magazine come uno dei dieci migliori giovani registi del momento, nel 2003 il festival di Cannes ha ospitato una retrospettiva dei suoi film assicurandogli un posto tra i cineasti di fama internazionale. Il suo The Call si inserisce dunque all’interno di una critica sociale, portata con la sublime quintessenza dell’immagine, eterea e onnipotente. Qualora si affidi la propria esistenza e la propria comunicabilità all’onda sinusoidale di un meccanismo, esso può alla lunga sopperire alla nostra realtà e quindi a buon diritto, porre fine alla stessa.
Si potrà obiettare sulla ripetitiva struttura che accomuna Ringu a The Eye, a Dark Water, a Ju-on, a The Phone e a tutti i loro figli hollywoodiani tra cui lo stesso The Ring, Fear.com e The Grudge (in lavorazione), ma incontrovertibilmente la formula funziona e se l’horror, secondo la definizione apparsa sulla rivista “Sight and Sound” nel 1952, “ha lo scopo ben preciso ed apertamente dichiarato di procurare allo spettatore forti shock visivi ed emozionali”, allora l’assunto è perfettamente rispettato. Le paure del nuovo millennio prendono forme inaspettate e rassicuranti (spesso i serial killer sono bambini e articoli di uso quotidiano). Lo spettro disumanizzante si attua attraverso ciò che ci viene imposto ‘perché la società deve andare avanti’, ma verso quale direzione non ce lo hanno mai detto. Ma di questo processo siamo tutti un po’ vittime e un po’ carnefici. Quanto acutamente conosciamo ogni funzione del nostro telefono cellulare, sappiamo la differenza tra l’UMTS e il GPRS, così ignoriamo il colore preferito di nostra madre o dimentichiamo il compleanno di nostra figlia. Le comunicazioni, rivoluzionate nel nuovo millennio, ci hanno tolto qualcosa mentre ce ne davano un’altra: abbiamo acquisito la facoltà di interagire con una persona dall’altra parte del mondo, ma non lo facciamo più con chi ci sta accanto e allora non ci stupiamo se alla fine di un film come The Ring, The Eye, The Grudge o The Call, scopriamo che il feroce omicida, il “demone”, altri non era che una madre o una figlia che chiedeva solo un po’ di attenzione…
di Alessio Sperati