Dal remake all’emulazione, la cinematografia americana chiede sostegno e forza vitale ad altri paesi, dando vita ad opere di ardua classificazione per i professionisti del settore. Qualcuno di noi si era indignato quando Cruise aveva, per Vanilla Sky, ripreso un originalissimo film di tre anni prima per rifarlo a suo gusto e consumo. Ora la tecnica del remake si sta affinando dando vita a nuove figure professionali che, come “talent scout”, scrutano le più diverse cinematografie alla ricerca di idee ed i tempi di riproduzione diventano sempre più corti. La storia di The Grudge è più affascinante del film stesso: il produttore giapponese Taka Ichise, meritevole di illustri precedenti come Ringu (The Ring), ha fiutato il talento del regista Takashi Shimizu quando era ancora uno studente di cinema. Questi mostrò due cortometraggi a Ichise il quale, avendo un contratto con la società giapponese V-Cinema per due film da distribuire in Home Video, decide di affidarli al promettente Shimizu. Così nacquero i film della serie Ju-On. I primi due, entrambi del 2000, furono distribuiti in Home Video e proiettati dalla tv giapponese con il titolo di Ju-On e Ju-On 2. Dato il loro successo al regista fu data la possibilità di trarne un lungometraggio per il circuito cinema, ed ecco venir fuori Ju-On: The Grudge (2003).
Il passaparola fece arrivare l’ondata di successo in America fino alle orecchie di Roy Lee, produttore esecutivo che aveva già scoperto Ringu e sostenuto il suo remake americano e che ha deciso di coinvolgere nel progetto anche il maestro dell’horror Sam Raimi. Intanto Shimizu, sulla scia del successo del primo film per il cinema, ne aveva già tratto un sequel dal titolo Ju-On: The Grudge 2 (2003). Raimi ha così deciso di realizzare il remake americano tramite la sua società di produzione, la Ghost House Pictures e di farlo dirigere alla persona più indicata, al suo creatore Takashi Shimizu. La versione USA naturalmente aggiunge quegli effetti sia fisici che digitali, non presenti nella versione originale, che lo arricchiscono di qualcosa, pur privandolo di una certa genuinità. Accade come in The Ring che, qualora si abbia a disposizione l’originale, si faccia il confronto e nasca la domanda: se un regista riesce a spaventare usando farina sulla faccia, guanti di gomma, effetti artigianali e tagli artistici alla pellicola, spendendo molti più soldi si ottiene qualcosa di più o di meno? È un po’ come paragonare un thriller di Hitchcock a gli odierni remake: il regista di Psyco costruiva le sue scene architettando i più ingegnosi stratagemmi, e creando effetti di luce oggi possibili con programmi PC dedicati. La stessa idea si può avere paragonando il primo Guerre Stellari di Lucas, costruito da un gruppo di giovani intraprendenti di grande talento, e i nuovi episodi quasi totalmente creati al computer. L’effetto può anche essere lo stesso, ma il fascino è completamente diverso.
di Alessio Sperati