Si può ancora dire che il cinema per intrinseche proprietà riproduca? Se si dovesse rispondere alla domanda pensando alla capacità della m.d.p. di simulare uno sguardo, oggettivo e fin troppo reale nella sua lucidità lenticolare e nella sua impassibilità tecnica sul mondo, allora la risposta non potrebbe essere che un no secco. Lo sguardo spettatoriale è cambiato negli anni, si è fin troppo abituato a considerare il mezzo nella sua convenzione linguistica, narrativa drammaturgica e compositiva. Ma forse il cinema è ancora capace di riprodurre, proprio in virtù della sua natura convenzionale e linguistica. Come già accaduto in altri ambiti artistici visuali, (l’impressionismo o le avanguardie in pittura) la vera oggettività non è data più dalla riproduzione perfetta di una realtà fenomenica data a priori come vera, ma nella ricostruzione della percezione (più mentale che ottica) del soggetto (personaggio di una narrazione o meno, non importa granché).
Questa soggettiva impersonale diventa lo strumento linguistico privilegiato per riflettere sulla visione e sui modi di conoscenza tramite lo sguardo. Certo poi bisogna dire che la linea di ricerca negli ultimi trent’anni (nouvelle vague e postmoderno) sembra focalizzarsi più sugli ostacoli che impediscono uno sguardo realmente lucido e visionario, o magari sull’estraneità tra soggetto che guarda e realtà esterna, sull’impossibilità di costruire un senso tramite il cinema. La percezione c’è, ma è franta, spezzettata, schizoide, non esiste più una ricostruzione logico-razionale di quanto ci circonda, al massimo una conoscenza procedurale e meccanica indotta ideologicamente, per di più viziata dalla compulsività fisiologica di un inconscio che, nelle sue contraddizioni non riesce ad adeguarsi ai perfetti meccanismi tecnici della modernità.
E qui siamo a questo The Missing Gun premiato a Venezia nella rassegna Controcorrente (premio dignitoso e non da scandalo, anche se a Controcorrente 2002 c’era un capolavoro assoluto come A Snake of June di Tsukamoto). Lo spunto è a metà tra il noir e il grottesco metafisico: un poliziotto, Ma Shang, proprio il giorno della sua premiazione perde la sua pistola e comincia a girare per la sua cittadina nel disperato tentativo di ritrovarla (la pistola è carica e un eventuale assassino potrebbe utilizzarla tranquillamente). Per tornare al tema della percezione il giovane Lu Chuan, trentenne all’opera prima, traduce la trama in film con uno stile singultato e franto, al limite tra sperimentalismo linguistico e videoclip (e questo provoca degli scompensi in un film dalla sceneggiatura forte e troppo orientata al simbolismo). Il racconto, apologo noir allegorico-spettacolare si trasforma in riflessione sul tempo, l’assenza di memoria, l’impotenza visiva prima che esistenziale.
Niente thrilling psicoesistenziale, niente hard boiled con tocchi di grottesco (il connubio fin troppo esplicito pistola-potenza), piuttosto reinvenzione del materiale ed ennesimo trattato sull’ incapacità di un personaggio di dare significato a ciò che lo circonda, forse ad essere personaggio. Ed ecco che in sala ci si trova davanti a personaggi che cambiano ruolo improvvisamente (ma sono personaggi o proiezioni della mente di un pazzo?), i flashback sfumati e spezzettati, che aggiungono mistero invece di rivelare, le continue dilatazioni e contrazioni di un tempo che è pura compulsività fisiologica di Ma Shang, il tutto immerso in un sonoro cacofonico e sovraesposto. Non esiste il tempo nella mente dello sfortunato poliziotto, non esiste lo spazio, se non i fondali di una natura e di una civiltà millenaria comunque a lui estranee e i continui microshocks visivi e sonori che deve affrontare (gli shock audiovisivi della società industriale di cui già si occuparono Freud e il Benjamin dei Passages). I suoi sensi sono ottusi, registrano ma non interpretano, gli stessi amici e familiari sembrano solo ombre, feticci da lui proiettati al suo esterno. Insomma siamo tra Kafka (esplicitamente citato da Lu Chuan) e il caso clinico, il tutto con uno stile febbrile e aritmico, una sorta di soggettiva di un soggetto in preda ad attacchi di panico e con il particolare simbolico rilevante della presenza continua e via via sempre più invadente dell’ elemento acquatico.
Pioggia, pioggia come ne Il ritorno e in A Snake of June, perché è lo stesso quadro ad essere liquido. Privo di uno sguardo stabile, di categorie spazio-temporali solide, il povero Ma Shang si muove nel suo universo paranoide, in perenne ridefinizione, un mondo liquido appunto, con sempre maggiore estraneità, fino ad un finale tragico, che non farà che confermare la sua natura oramai fantasmatica, quasi da figura ioneschiana. E qui entra in scena il problema dello stile, che non sembra dovere molto a registi cinesi, di Hong Kong o taiwanesi viventi, quanto piuttosto pare in linea con i lavori su soggettiva e fisiologia dello sguardo di Lynch (con tanto di annullamento di ruoli e personaggi) e dell’ ultimo Paul Thomas Anderson. Stilismo? Film da festival? In maniera paradossalmente simile al vincitore del Festival 2003, il vincitore di Controcorrente 2002 è un regista promettente, con velleità e forse capacità autoriali. Purtroppo, lo abbiamo già detto, paga un certo allegorismo di sceneggiatura. Insomma cinema spetacolar-malinconico all’ americana (produce la Columbia), contraddetto in maniera fin troppo evidente dalla ricerca registica. In questo caso non resta che attendere e notare come Lu Chuan per ora si aggiunga alla lista sempre più numerosa di registi che rinnegano il personaggio, ne mettono in scena la crisi, l’ assenza di soggettiva e memoria (Lynch, Kitano, i Coen, Tarantino, il Forman di Man on the moon, il Clooney di Confessioni di una mente pericolosa). Cinema postmoderno come cinema della schizofrenia e dello sguardo in crisi (crisi=prima ridefinizione), a voi vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto.
di Francesco Rosetti