La novella cineasta Catherine Hardwicke, dopo anni di lavoro come scenografa (con Cameron Crowe in Vanilla Sky, ad esempio, o per David O. Russell per Three Kings), ha scritto con Nikki Reed il suo primo film. Niente di strano in un copione a quattro mani, se la Reed non lo avesse fatto a soli tredici anni e contemporaneamente avesse lavorato nella pellicola anche come attrice (e a volere seguire i desueti e un poco ridicoli criteri di Cesare Lombroso, la faccia di Nikki non è esattamente quella di una pensosa intellettuale in erba, anzi si fa fatica a vederla rimaneggiare script…). Il film è, in alcuni tratti, un racconto di formazione, e, poi, spaccato sociologico della cosiddetta “Girl Culture”, un affresco delle disillusione e del retrogusto amarissimo che sta dietro al Sogno Americano. Pur senza indulgere in eccessi patetici o didascalici, la Hardwicke nel mostrare una tredicenne castigata e disciplinata di nome Tracy che si fa contagiare dall’immagine vincente e sexy di una compagna di scuola, Evie, definita “la ragazza più calda della scuola”, che in realtà, maschera con l’arroganza, i piccoli furti e le droghe un’assenza di riferimenti familiari e sociali, mette a segno una vera e propria denuncia sul merchandising statunitense che imbriglia a indirizza in senso consumistico le ribellioni e le rivolte di una giovanissima che non si sente all’altezza delle aspettative di una società impazzita. Entrare nel gruppo delle preadolescenti ‘In’ significa avere molti soldi a disposizione, comprare vestiti di marca in un bulimico shopping a Rodeo Drive (la pellicola è ambientata nei sobborghi di Los Angeles), farsi tatuare e riempirsi di piercing, fumare e prendere pastiglie, fare sesso senza inibizioni, mentire continuamente. La madre di Tracy, separata e piena di problemi economici, con alle spalle problemi di alcolismo, non sa e non può gestire una trasformazione della figlia così organizzata, inquadrata nel Sistema che vuole anche giovani sbandati senza una vera causa. Lo stile da videoclip della pellicola, un poco furbetto, è dato da una cinepresa mobile che si muove addosso alle protagoniste in modo parossistico, così come le musiche ad hoc che accompagnano le gesta delle due scriteriate bambinacce. Più convincente di un precedente film fac simile come White Oleander – Oleandro Bianco , ma assolutamente prevedibile nella caduta e nella redenzione di una confusa fanciulla che scopre con sofferenza la vacuità di un percorso esistenziale votato all’autodistruzione, ci si chiede maliziosamente se questo modo di trattare le “problematiche giovanili” non stia diventando un cliché per nuovi consumi nelle sale cinematografiche: il morboso che avanza…(guai, poi, a trovare delle somiglianze con Elephant di Gus Van Sant, si rischia di omologare un piccolo capolavoro a un film dignitoso).
di Vincenzo Mazzaccaro