Macaulay Culkin è risultato simpatico davvero in pochi film della sua prima carriera, quella per intenderci di quando non raggiungeva il metro e mezzo. Papà ho trovato un amico era uno di questi, l’altro certamente L’innocenza del Diavolo. In entrambi moriva… In Party Monster non muore e proprio per questa ragione riesce a risultare più antipatico che mai, visti anche i panni eccentrici che veste, quelli del guru del divertimento newyorkese degli anni Novanta Michael Alig (bisognerebbe chiedere a Sacha Baron Cohen se Ali G è in qualche modo ispirato al personaggio reale). Alig creò il tunnel da cui è molto contento di essere uscito Caparezza, un transgender, dopante al ritmo della prima ‘Tunz Tunz’ post londinese, in cui l’immagine era tutto e la cocaina non si sniffava più con la stessa frequenza degli anni Ottanta: in fondo anche l’eroina è polvere! L’ecstasy prendeva piede e le distinzioni sessuali erano stupide barriere borghesi (come si suole dire: in tempo di guerra ogni buco è una trincea) e, in questo proliferare di sgargianti novità, Michael Alig aveva capito che per essere qualcuno bisognava essere chiunque, tranne che se stessi.
Party Monster racconta questo, la triste storia di un ragazzino dimenticato a casa dalla famiglia il giorno della partenza per le vacanza e lasciato così libero di fare tutto quello che vuole. Alig fece del Limelight, chiesa sconsacrata nel centro di New York trasformata in night club alla moda, il tempio della trasgressione americana, un’epidemia che avrebbe poi colpito anche il Vecchio Continente nella sua forma più naturale, il franchising (il Limelight aprì anche a Londra, all’angolo tra Charing Cross e Tottenham Court: un bel posticino dove si facevano conoscenze interessanti), ma grazie alla maggiore sicurezza culturale dei nostri giovani fu un movimento debitamente addomesticato. Una personalità incompleta quella di Alig, quindi, capace di sublimare le sue mancanze grazie a trastulli come il sesso, con uomini o donne non importa, droga, abiti costosi e trasgressioni di vario genere.
A vederle oggi, a soli dieci anni di distanza, ci verrebbe spontaneo un sorriso, visto quello a cui siamo stati abituati dal bombardamento mediatico. Ma se oggi esiste un Grande Fratello, una Fattoria, un’Isola dei Famosi e un’altra serie di scemenze del genere, lo dobbiamo anche a personaggi come Michael Alig, capaci di amplificare il pericoloso concetto Warholiano del successo e della celebrità dai misurati quindici minuti del canuto artista a un tempo variabile a seconda del livello di annoiamento dell’audience. La festa dei mostri è cominciata e non è mai finita, i mostri sono quelli che decidono gli eliminati tra i nominati, come il popolo chiedeva all’Imperatore la vita del gladiatore nell’arena. Party Monster non è un film memorabile, né lo è l’interpretazione di Macaulay Culkin (al contrario è davvero notevole Seth Green nei panni di James St. James, autore del romanzo da cui è tratto il film), ma lascia pervasi da un profondo senso di inadeguatezza. Ma se uscite di casa e vi annoiate… fidatevi: dovete esserne molto contenti.
di Alessandro De Simone