Tra l’essenza di ciò che si è e l’evidenza di ciò che si fa scorre una distanza fatta di tempi indefiniti e di misteriose convinzioni sociali. Della sorda solitudine culturale di una vita trascorsa ai margini di una periferia, nell’eterno disagio di appartenere ad una comunità che non si comprende fino in fondo. Del desiderio di non comunicabilità per non rischiare di fermarsi, rimanere dove ci si sente pesantemente imprigionati. Luciana ed Alfredo, sospinti dalla consuetudine delle proprie esistenze, incarnano l’insoddisfazione e l’immobilità di vite come tante, all’interno delle quali inevitabile esplode la crisi alimentata dall’incontro con la diversità. Terreno dove si proiettano le loro fascinazioni che, alternamente, li coinvolgono ed intimoriscono. Ma è Tonino Zangardi che conduce e si impadronisce del loro destino. Li guida tra la luce grigia ed opaca di una periferia di una città qualsiasi che ,solo casualmente, si identifica con Roma. Li osserva silenzioso nell’esternazione di rabbia e pietà. Regista di vite più che di film, li pone alternativamente di fronte ad ostacoli per indurli a gridare con urgente necessità di sopravvivenza: ” Prendimi e portami via”. Perchè è più semplice attendere che qualcuno lo faccia per noi, piuttosto che agire. Disegna ed illumina sul volto di Valeria Golino l’acerba ostinazione di un lento e distratto risveglio. Sottrae a Rodolfo Laganà i tono comici della sua fisicità, regalandogli la capacità di un primo ruolo drammatico. Ed intorno a loro, vorticosamente, in una coreografia di fuoco, colori, musica e violenza si delinea il mondo degli “uomini per bene” opposto a quello degli zingari. Narrato attraverso la semplicità e l’immediatezza di un amore adolescenziale, privo di barriere sociali e culturali. Senza mai lasciarsi andare, nonostante l’evidente simpatia per la cultura rom che si sente scorrere nelle immagini, a schemi morali di facile esternazione, dove la condizione di coloro che vengono perseguitati si oppone a quella di coloro che perseguitano in uno schema ripetuto all’infinito. Uno sviluppo onesto per evidenziare come la cecità ed il non voler “sapere” possa proliferare indistintamente in ogni luogo ed in ogni etnia. Ed alla fine la tenera, ingenua speranza che tutto si possa trasformare. Che l’essere ed il fare diventino un unico elemento descrittivo dell’umana natura. E che si possa andar via accompagnati dalla suadente voce di De Andrè in un sogno inaspettatamente reale.
di Tiziana Morganti