Dopo il crollo dell’Unione Sovietica molte ragazze dei paesi dell’Est hanno creduto di trovare la “Terra Promessa” non solo in Europa ma anche nei paesi del Medio Oriente, Israele compreso. Sono invece ridotte in schiavitù e costrette alla prostituzione, subendo le peggiori forme di violenza e umiliazione. Qualcuna, prima di arrivare, mette già in conto l’idea di fare questo “lavoro”, sperando di guadagnare tanto e poter poi tornare a casa con molto denaro, ma questo non accade mai. È una tragica realtà che Amos Gitai ha voluto raccontare in Promised Land, mettendo questa volta da parte il tema trattato in molti dei suoi lungometraggi: il conflitto israelo-palestinese. Il processo di documentazione è stato lungo. Gitai e i suoi collaboratori hanno raccolto informazioni dagli attivisti di Amnesty International e dalle associazioni che si occupano della difesa dei diritti delle donne, soprattutto hanno incontrato molte ragazze che hanno vissuto questo tipo di esperienza. È nato così Promised Land (in concorso alla 61ª Mostra del Cinema di Venezia) che è a metà strada tra un film e un documentario, girato con telecamere a mano, con una fotografia sgranata e da microfoni e videocamere spesso in campo. Qui, in questo carattere ibrido, sta forse il limite di un’opera che ha il merito di fare luce su una piaga della società contemporanea ma che non riesce a coinvolgere emotivamente gli spettatori se non in alcune scene.
Tra queste è bellissima e agghiacciante nello stesso tempo quella della vendita all’asta delle schiave, ambientata di notte, nel deserto, con la sola luce dei fanali delle macchine degli acquirenti ebrei ed arabi (“meravigliosamente” d’accordo quando si tratta di alimentare il traffico delle prostitute). Colpisce che a gestire l’organizzazione siano due donne (interpretate da Hanna Schygulla e Anne Parillaud), a testimoniare che la sete di denaro può uccidere ogni forma di solidarietà femminile. Fanno da sfondo le macerie di Ramallah e il terrore di Haifa. Proprio grazie ad un attentato, Diana (l’attrice ucraina Diana Bespechini, qui al suo debutto cinematografico) riesce a fuggire e a riacquistare la libertà, secondo quella logica irrazionale del Medio Oriente per cui le catastrofi creano spesso sbocchi nuovi per la speranza. Ad aiutarla è Rose (Rosamund Pike, già vista ne La morte può attendere), una turista straniera e occasionale amante di uno degli sfruttatori, che, venuta a conoscenza dell’asta, vi assiste con un atteggiamento voyeristico. Quando le viene chiesto dalla ragazze di prendere posizione, inizialmente Rose rifiuta ma nei giorni seguenti, conoscendo meglio Diana, diventa solidale con lei fino ad essere sua amica. Rose siamo tutti noi, il pubblico, a cui il regista chiede di farsi coinvolgere e di schierarsi.
di Patrizia Notarnicola