Dopo la tiepida accoglienza riservata al film Ravanello pallido (2001), che ha segnato il suo debutto alla sceneggiatura, Luciana Littizzetto torna al cinema con una storia di probabili e vivaci tradimenti coniugali, diretta con l’eleganza e la pulizia stilistica di Davide Ferrario (Dopo Mezzanotte), per la prima volta alle prese con un copione non suo. Tratta dal libro La collega tatuata di Margherita Oggero, la sceneggiatura è stata fortemente caratterizzata dall’intervento di Anna Maria Pavignano e della stessa Littizzetto, capaci di arricchire una vicenda prevalentemente incentrata sulla risoluzione di un mistero con il gusto agrodolce di una commedia dai risvolti romantici. Un bizzarro mix che dal punto di vista narrativo ha garantito una vivacità naturale ad una probabile vicenda di ordinaria confusione sentimentale, mentre ha regalato alla Littizzetto la possibilità di uscire dai canoni della sua comicità televisiva per scoprirsi artista brillante e sagace. Diretta con fermezza da Ferrario, che le ha delimitato con precisione uno spazio interpretativo per non lasciare eccessive possibilità d’azione al suo talento istrionico, l’attrice torinese ha dimostrato di poter gestire un ruolo femminile dalle sfaccettature comiche senza ricorrere all’eccessiva rappresentazione del grottesco. L’attrice recita attraverso dei canoni del tutto cinematografici e, dividendo la scena con Dino Abbrescia (Io non ho paura), marito distratto ed abitudinario, e Neri Marcorè (Il cuore altrove), improbabile amante tenebroso, contribuisce a creare l’atmosfera piacevole di una classica commedia all’italiana dove, ancora una volta, il tradimento sembra essere l’ingrediente fondamentale per ravvivare un rapporto soporifero. Con questo non lo si vuol certo catalogare come un capolavoro della cinematografia moderna, ma non gli si può certo negare il merito di proporre comunque una visione quanto meno godibile e rasserenante nonostante l’eterno e sempre “scabroso” tema delle corna. Una problematica che l’intero cast sembra riuscire ad affrontare e risolvere seguendo l’antica ed efficace regola del negare a tutti i costi, anche l’evidenza, perché la verità serve solo a concludere un rapporto giunto a suo esaurimento. Una commedia degli inganni, dunque, che stilisticamente porta l’impronta lasciata dallo sguardo e dalle scelte estetiche di Ferrario. L’introduzione di alcune improvvise velocizzazioni delle immagini e di una Françoise Hardy che, attraverso le sue canzoni datate anni ’60, fa da contrappunto ironico alla vicenda fino a trasformarsi in una specie di narratore emozionale, donano all’intera pellicola un tocco di sobria eleganza e dimostrano come una risata possa avere ancor più senso ed impatto se non richiede necessariamente l’esclusione dell’ intelletto.
di Tiziana Morganti