Per una buona mezz’ora è possibile credere di trovarsi di fronte ad un prodotto realmente innovativo, pronto finalmente a mostrare più che a rappresentare, disposto a fotografare e non a recitare la distruzione e lo svilimento della guerra con uno spirito giornalistico e documentaristico tralasciando l’aspetto propriamente cinematografico. Per metà del film si ha la netta sensazione che il giovane regista Christian Johnston proceda verso un percorso d’indagine e di avvicinamento, facendo del suo primo lungometraggio un’opera di comprensione e di confronto con una cultura, quella araba, al centro dell’attenzione internazionale, ma September Tapes delude le aspettative iniziali in nome di un action movie, sfumando sulle ragioni effettive che hanno condotto all’inizio delle ostilità in Afghanistan ed alla tragedia dell’11 settembre. Con una telecamera digitale, in perfetto stile Blair Witch Project(immagini mosse e sgranate che danno l’effetto di riprese effettuate in modo certo non propizio) Johnston ha realizzato otto filmati all’interno dei quali la finzione cinematografica si interseca con la realtà delle bombe e delle sparatorie lungo le strade di Kabul, generando un effetto che non si trasforma in sensazionalismo ma regala la percezione tangibile e concreta di una realtà mai mostrata dagli organi d’informazione, una visione spazzata via nel momento stesso in cui la macchina cinema prende il sopravvento.
Va bene introdurre l’elemento narrativo attraverso l’esperienza personale del documentarista Don Larson che, armato esclusivamente di una telecamera, del suo operatore e di un interprete, si avventura tra le poche luci e le molte ombre della sconosciuta e complicata realtà mussulmana; è altrettanto stimolante trovarsi finalmente all’interno di un dibattito culturale e sociale tra le due parti contendenti, ma quando la scintilla iniziale viene spenta per dare spazio all’uomo qualunque che, improvvisamente si trasforma in un Rambo strisciante ed agonizzante con una “bugiarda” espressione da reduce dipinta sul volto, il cui unico scopo è quello di uccidere Bin Laden e vendicare la morte della moglie, vittima del terrorismo, diviene palese come anche i migliori propositi possano dissolversi nel nulla. Johnston ha più volte dichiarato di aver affrontato questa avventura sottoponendosi a molti rischi personali per far in modo che il pubblico americano fosse costretto a sostenere una nuova sfida culturale ed avesse la possibilità di riflettere sulla propria condizione sociale e politica, ma se l’elemento romanzato prende il sopravvento sull’indagine troppo ferma a presupposti ormai risaputi, quale tipo di presa di coscienza ci si può aspettare? Gli Stati Uniti non hanno alcun interesse a catturare Osama Bin Laden, il loro unico scopo è quello di utilizzare il territorio dell’Afghanistan come passaggio per un nuovo oleodotto. Ecco il grande mistero svelato da September Tapes, il principio sul quale milioni di americani dovrebbero riflettere a pochi giorni dalle presidenziali e del quale il resto del mondo, arabi compresi, sono più che coscienti da fin troppo tempo.
Un messaggio eccessivamente semplice ed evidente per un’opera che si identifica con il mondo della cinematografia indipendente e che dovrebbe avere il coraggio e la funzione di andare a scavare più in profondità fino alle cause ed alle ragioni che hanno portato al crollo delle Torri Gemelle. Posto il principio fondamentale secondo il quale ogni forma di terrorismo, fisico o psicologico, sia da condannare sembra giunto il momento per gli Stati Uniti di accantonare, almeno per ora, le immagini e la rappresentazione del dolore e della frustrazione per guardare indietro e comprendere gli errori commessi all’interno di una politica internazionale fragile e delicata per guadagnare nuovamente quel senso di sicurezza e libertà di cui si sentono privati. Un impegno che l’ambiente culturale, in primis quello cinematografico perché di immediato e più diffuso impatto, dovrebbe sostenere senza alcuna riserva. Un proposito che in September Tapes troviamo solamente accennato ed abbandonato ad una fase embrionale forse anche a causa della decisione del Governo di confiscare e visionare alcuni filmati considerati particolarmente rischiosi e destabilizzanti per la condizione degli americani in Afghanistan. Non rimane, a questo punto, altro che sperare di assistere ad un opera più completa dal punto di vista artistico e concettuale grazie al DVD (verrà distribuito nel mese di dicembre) all’interno del quale Christian Johnston si propone di inserire i filmati e le interviste requisite.
di Tiziana Morganti