La cinematografia russa ci ha spesso abituati ad un approccio freddo e distaccato al tema dei sentimenti. Le sfumature del cuore, l’intersecarsi delle relazioni umane rispecchiano in genere la glacialità dei paesaggi. Anche Svetlana Proskurina, sceneggiatrice de L’Arca Russa del regista Alexandr Sokurov, affronta una storia intima, familiare, con un punto di vista distante; i suoi personaggi, i quali attraversano tutti una fase di grande crisi interiore, si spostano all’interno di ambienti desolanti e solitari, rifugi dell’anima e insieme luoghi d’evasione da una realtà troppo difficile da sopportare. Sono esseri umani che hanno una grande difficoltà a comunicare gli uni con gli altri: infatti è il silenzio che per lo più li contraddistingue, un silenzio che verrà rotto solo nel momento in cui per caso essi inizieranno a parlare mediante il telefono, mezzo di comunicazione comunque isolante per eccellenza. Purtroppo la regista non riesce a realizzare un film in grado di colpire la sensibilità dello spettatore; il limite maggiore risiede nei dialoghi eccessivamente criptici e contorti, che sembrano non portare a nulla, volti inutilmente a simboleggiare l’incomunicabilità dei protagonisti. Inoltre il film passa con troppa repentinità da toni intimisti ad altri eccessivamente melodrammatici (si veda il nero finale); scade così in un freddo esercizio di stile, per di più inficiato da una fastidiosa pretesa intellettuale. L’analisi dell’opposizione tra suono e silenzio, comunicazione e mutismo non viene dunque approfondita adeguatamente e il film si salva solo per la dolce presenza della giovane Dana Agisheva, di una bellezza infantile ma assai conturbante.
di Simone Carletti