Dopo il successo di Tornando a casa, storia intensa e dal sapore neorealista, Vincenzo Marra torna a Venezia per presentare ancora una volta una vicenda tutta italiana. Lasciata l’amata terra siciliana, la macchina da presa si lascia affascinare dalla cruda realtà del napoletano, con un quartiere, Secondigliano, inquadrato in tutto il suo monumentale splendore fatto di sacrificio e fatica. La scena si apre su una panoramica e il movimento lento e descrittivo ci offre la possibilità di riflettere sull’ambiente, oggetto di studio dell’analisi socio-antropologica del regista. Il quartiere è abitato da milioni di anime, definite “senza paracadute”, lanciate nel vortice della vita e dall’amara quotidianità prive di alcun sostegno: la storia di Vincenzo, della sua famiglia e dell’incontro con Francesco ci porta a riflettere su le annose questioni di casa nostra. Il film appare nella sua nitidezza secco e sincero, privo di sbavature grazie anche all’impegno degli interpreti (molti alla prima esperienza davanti l’obiettivo) credibili e convincenti. La scelta di Marra di voler lasciare il nome dei personaggi uguale al nome degli attori, conferisce all’opera un grado di verità e spontaneità di notevole impatto. Il Sud dell’opera prima, ritratto nelle onde placide e burrascose, si riflette nella Napoli contemporanea ancora afflitta dai soliti vecchi problemi, fra tutti la necessità dell’individuo di coprire un ruolo sicuro nella società. L’anima di emigrante del protagonista (e in parte anche dell’autore, anch’egli originario di quelle terre) lo mette a confronto con altrettante realtà, tutte tristi e difficili, dalle quali scaturiscono il rifugio nella solitudine e uno stato di smarrimento esistenziale. Nonostante l’ottima prova registica e alcune straordinarie interpretazioni, il film pecca nel soggetto: si è gia parlato della sua forma di veridicità e concretezza, ma purtroppo questa esperienza di cinema realtà si infittisce maggiormente mancando di cuore. Alcune intuizioni funzionano a tal punto da far pensare ad una operazione quasi maniacale sull’indagine italiana; i movimenti della macchina da presa ricordano per certi versi “la camerà stilò” della nouvelle vague (espressione adottata dalla nouvelle critique francese). Vento di terra si apre infatti con una panoramica ampiamente descrittiva, le scene sono capitoli che si chiudono con dissolvenze in nero accompagnate dalle musiche di stampo minimalsita.
di Ilario Pieri